POESIE
(da :”Bosco dell’essere”, 2000)
Bosco dell’Essere
da qualche parte di questo bosco
senza sentieri una bocca di foglia
canta con voce d'allodola il nulla.
Una lingua che non muta il fosco
del cielo arcuato nomina la doglia
dei vermi della terra, la betulla
che freme, cori disperati di coturnici,
le note dell'upupa, strida di sparviero
e il sospiro del merlo agghermigliato.
E una lingua lacerata, fatta di cicatrici
vive, che balbetta e supplica nell'emisfero
di luce filtrante, nell'occhio abbagliato
del tempo che si ferma in uno stocco
sbieco e accarezza le felci con mani
sanguigne: lingua ammaliante, arborata,
stillante falene, estinta nello schiocco
di rami spezzati, nei passi verso domani
trascorsi e ora stelle nella sera aurata.
La poesia
c'è un'arte che pensa se stessa
e dischiude il tempo in una fiamma
cantante. Sogna o veglia, anagramma
silenzi, fluisce vibrando genuflessa
nel suo splendore e dura. Come una fionda,
un forte spago, un'ala falciante, schiocca
fremendo inquieta. Chiude in una rocca
ferrigna tossico e miele, e affonda
in un ardente nido di fenice. Travaglio,
gioco e gioia sono i suoi lemuri, assenza
è la sua casa fatta di vetro e aria. Senza
requie il suo alto volo, uno scandaglio
di penne incendiate, braci sbrattate, cielo
espanso sul mondo di terra e piume. Figlia
di nessuno, appena nata, non ha briglia
né guida e avvince il sole in un velo.
Viandante
pensieri al buio, pioggia nell'ombra, mezzanotte
sulla città, un viandante fulmineo lungo il muro
di pietraserena e risa delle nòttole. Inghiotte
ogni respiro e vita l'invisibile affresco, scuro
profilo d'abbracci in specchi d'asfalto motoso.
La luna invernale rischiara un angolo di brina
e ghigna nitida, ispida, e scricchiola, uncina
le foglie del viale, squama cortecce. Furioso,
rauco è il sospiro dell'inverno, questa rovina
madida, quest'appassire marcente nel crepitio
di passi, vomiti e tumultuose agonie. Oblìo
d'ogni viso, eco d'ogni nome o lingua, calcìna
l'aria, artiglio avvinto alla bocca in volute
ritorte, àncore, ami. Neri uccelli intontiti,
una versiera triste, fiori bruni, spettri usciti
da un quadro sostano alla stessa finestra, mute
presenze di una casa senza luci che s'inginocchia
nell'acqua. Solo l'occhio del viandante è radioso:
solo un viandante dal piede alato, fedele sposo
della strada, supremamente vivo, il cielo adocchia.
Il demone meridiano
nel cuore del meriggio è più nera
l'atarassia. E abbacinante il cielo,
e l'afa e l'arsura sono una ferriera
infuocata. S'erge il silenzio in stelo
saldo nell'ombra lunga che impregna
l'ora infera. L'eternale immobilità
di Sirio costellato nel Cane segna
febbri languenti su vaticini e calamità
di questo giorno muto e senza senno,
fatto di delirio, tormento, stupore
e incubi da svegli; col rovinoso cenno
del demone meridiano, rosso devastatore,
dio della peste, guida di cacce selvagge
per trivi e bianchi campi. Nell'ora mala,
alle dodici in punto, in cimiteri e piagge,
furie, angeli e strigi aguzzano l'ala.
L’odio
non tutto l'amore fu detto:
non furono dette le illusioni
né le finzioni. Non la dolcezza
che vira nell'amaro, tenerezza
di un'algida mano, il dialetto
degli amanti nei loro gironi.
C'era anche l'odio, crudo, puro
tossico che non finge né illude
e non sa dimenticarsi perché
vuole durare. Col caos finché
niente sia più, e solo, malsicuro
in luce, scava oro in una palude
Labirinto
in questo labirinto, questo cosmo nero,
sbrogliata o tagliata matassa che avvolge
i cunicoli ai riccioli e adesso stravolge
l'ordine retto in un rizoma, campo foriero
di misteri e prede, qui, solo, vago e sogno.
Io, Minotauro, nelle nubi di mosche carnarie
che metamorfosano in demoni e angeli agogno
un altro incontro per la mia ira. Contrarie
mi sono le Parche, mentre la distruzione
m'accarezza. Così nascondo a me stesso
ansia, disprezzo e dolore, non le corone
di morte ogni giorno nuove se ritesso
col sangue delle vittime la mia rossa veste.
Nel buio del mio cuore riarso, è un pugno
di fuoco che s'apre allo spavento, celeste
piatire di anime perse, beltà fatta grugno.
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