venerdì 1 gennaio 2010

Stefano Lanuzza


Stefano Lanuzza è nato a Villafranca Tirrena (1949). Vive a Firenze. Ha pubblicato: libri d’italianistica e letteratura com¬parata |Alberto Savirrio (1979). L'apprendista sciamano. Poesia italiana degli anni Settanta ( 1979). CartograJìe del Negativo. Scrittura e nichili¬smo (1982), Scilla Cariddi. Luoghi di "llorcynus ()rea" (198 1985 I. Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta (1987), Vit¬torio Imbriani. Uno 'spadaccino' della parola (1990). Bestiario del nichi¬lismo. Scrittura e animali (1993), Storia della lingua italiana (19941. Firenze degli scrittori del Novecento ( 2001). Erranze in Sicilia (2003 ). Con Stampa Alternativa ha pubblicato le traduzioni di La strega (2005) di J. Slichelet e Gli ultimi anni di Oscar Wilde (2008) di A. Gide: e i volumi Vita da dandy. Gli antisnob nella società, nella storia nella letteratura (1999: "Premio Internazionale Feronia" 2000 per la Critica militante); L'arte del diavolo. Un millennio di trame. Ribellioni e scritture dell'Angelo decaduto (2000); Dante e gli altri. Romanzo della letteratura italiana (2001: "Premio Francesco Flora" 2003 per la Saggistica); Gli erranti. Vagabondi, viaggiatori, (2003): Punto, pun¬to e virgola... Antimanuale di scrittura e lettura (2004); Bestia sapiens. Animali. Metamorfosi. Viaggi e scritture (2006).

POESIE

(da :”Bosco dell’essere”, 2000)


Bosco dell’Essere


da qualche parte di questo bosco
senza sentieri una bocca di foglia
canta con voce d'allodola il nulla.
Una lingua che non muta il fosco
del cielo arcuato nomina la doglia
dei vermi della terra, la betulla

che freme, cori disperati di coturnici,
le note dell'upupa, strida di sparviero
e il sospiro del merlo agghermigliato.
E una lingua lacerata, fatta di cicatrici
vive, che balbetta e supplica nell'emisfero
di luce filtrante, nell'occhio abbagliato

del tempo che si ferma in uno stocco
sbieco e accarezza le felci con mani
sanguigne: lingua ammaliante, arborata,
stillante falene, estinta nello schiocco
di rami spezzati, nei passi verso domani
trascorsi e ora stelle nella sera aurata.


La poesia


c'è un'arte che pensa se stessa
e dischiude il tempo in una fiamma
cantante. Sogna o veglia, anagramma
silenzi, fluisce vibrando genuflessa

nel suo splendore e dura. Come una fionda,
un forte spago, un'ala falciante, schiocca
fremendo inquieta. Chiude in una rocca
ferrigna tossico e miele, e affonda

in un ardente nido di fenice. Travaglio,
gioco e gioia sono i suoi lemuri, assenza
è la sua casa fatta di vetro e aria. Senza
requie il suo alto volo, uno scandaglio

di penne incendiate, braci sbrattate, cielo
espanso sul mondo di terra e piume. Figlia
di nessuno, appena nata, non ha briglia
né guida e avvince il sole in un velo.



Viandante


pensieri al buio, pioggia nell'ombra, mezzanotte
sulla città, un viandante fulmineo lungo il muro
di pietraserena e risa delle nòttole. Inghiotte
ogni respiro e vita l'invisibile affresco, scuro

profilo d'abbracci in specchi d'asfalto motoso.
La luna invernale rischiara un angolo di brina
e ghigna nitida, ispida, e scricchiola, uncina
le foglie del viale, squama cortecce. Furioso,

rauco è il sospiro dell'inverno, questa rovina
madida, quest'appassire marcente nel crepitio
di passi, vomiti e tumultuose agonie. Oblìo
d'ogni viso, eco d'ogni nome o lingua, calcìna

l'aria, artiglio avvinto alla bocca in volute
ritorte, àncore, ami. Neri uccelli intontiti,
una versiera triste, fiori bruni, spettri usciti
da un quadro sostano alla stessa finestra, mute

presenze di una casa senza luci che s'inginocchia
nell'acqua. Solo l'occhio del viandante è radioso:
solo un viandante dal piede alato, fedele sposo
della strada, supremamente vivo, il cielo adocchia.



Il demone meridiano



nel cuore del meriggio è più nera
l'atarassia. E abbacinante il cielo,
e l'afa e l'arsura sono una ferriera
infuocata. S'erge il silenzio in stelo

saldo nell'ombra lunga che impregna
l'ora infera. L'eternale immobilità
di Sirio costellato nel Cane segna
febbri languenti su vaticini e calamità

di questo giorno muto e senza senno,
fatto di delirio, tormento, stupore
e incubi da svegli; col rovinoso cenno
del demone meridiano, rosso devastatore,

dio della peste, guida di cacce selvagge
per trivi e bianchi campi. Nell'ora mala,
alle dodici in punto, in cimiteri e piagge,
furie, angeli e strigi aguzzano l'ala.



L’odio


non tutto l'amore fu detto:
non furono dette le illusioni
né le finzioni. Non la dolcezza
che vira nell'amaro, tenerezza
di un'algida mano, il dialetto
degli amanti nei loro gironi.

C'era anche l'odio, crudo, puro
tossico che non finge né illude
e non sa dimenticarsi perché
vuole durare. Col caos finché
niente sia più, e solo, malsicuro
in luce, scava oro in una palude


Labirinto


in questo labirinto, questo cosmo nero,
sbrogliata o tagliata matassa che avvolge
i cunicoli ai riccioli e adesso stravolge
l'ordine retto in un rizoma, campo foriero

di misteri e prede, qui, solo, vago e sogno.
Io, Minotauro, nelle nubi di mosche carnarie
che metamorfosano in demoni e angeli agogno
un altro incontro per la mia ira. Contrarie

mi sono le Parche, mentre la distruzione
m'accarezza. Così nascondo a me stesso
ansia, disprezzo e dolore, non le corone
di morte ogni giorno nuove se ritesso

col sangue delle vittime la mia rossa veste.
Nel buio del mio cuore riarso, è un pugno
di fuoco che s'apre allo spavento, celeste
piatire di anime perse, beltà fatta grugno.

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