venerdì 1 gennaio 2010

Giovanni Commare



esenti nelle antologie “Storia dell'arte italiana in poesia”, a cura di P. Perilli (Firenze, Sansoni, 1990) e “Nostos” Commare Giovanni è nato Campobello di Mazara (1948). Vive a Firenze. Ha pubblicato: “Presenti e invisibili. Storie e dibattiti degli emigranti di Campobello”, Milano, Feltrinelli, 1978, in collaborazione con Chiara Sommavilla; “L'azione distratta”, Firenze, Cesati, 1990; “La distrazione. Opera aperta”, Firenze 1998-1999; il poemetto “Aspettando l'imbarco”, in «La clessidra», Novi Ligure, novembre 2002; “La distrazione (Immagini per un processo per una identifi¬cazione) ”, Napoli, Poetry Wave, 2004.
Alcune sue poesie sono state pubblicate nell'almanacco «Alto mare» (Reggio Emilia, Prandi, 1986); altre sono pr, a cura di F. Manescalchi (Firenze, Polistampa, 1997). Suoi racconti e articoli sono usciti sulle riviste «Linea d'ombra», «Paragone», «NumerO», «Il ponte», «Allegoria», «La clessidra» e «Il grandevetro» di cui è redattore. (Foto di  Carlo Chiavacci)


POESIE

 
(Da: “ La lingua batte”, Passigli, Firenze 2006)

IV, 13

non è tempo da mare, la parola è ferita,

kaman qatala-al-atfal,-thumma `atathar

fi qisas-il-hubb al kalimat la ta'ni shai'an

qiyasan ala-alaf'aal

così tutto vanisce nella nebbia?

non sei mai stata così bella,

IV, 15

arrendersi,

questione di ore la resa,

la città è presa,

ma non pensava di far paura a nessuno,



come ti chiami? gesù,


fai poco la ganza, su,

che ti trapano l'osso,

son pronti punte e chiodi,

vuoi la dieci o la dodici?

la più piccola, che dite?

ci spiace, le dieci le abbiamo finite,

IV, 20

(mezzogiorno)

i carrarmati hanno chiuso ogni via,

cessata la resistenza sono entrati,


sotto la cupola d'oro si odono esplosioni

e il fuoco avanza nella città vecchia

e avanzano corpicini pallidi macchiati di sangue

e sanguinano madri gridando i nomi dei figli

e del nome di vivi uomini si vergognano,


sparano sui bambini in fuga,

la schiena crivellata dai colpi di mitra,


lunga la fila dei profughi,

qualcuno fonderà città,



(sera)

non domanda più nulla,

riguardo la sua casa, la sua città,

in nessun discorso più s'addentra,


lo sfiora il vento, un nulla,

l'olimpica intangibilità,

incute spavento la sua indifferenza,



IV, 21

e diceva, il mare,

questo mare non lo posso raccontare

questo mare di dune di spine di gigli marini

questo mare di ieri di bombardieri di bambini allegri

questo mare non lo posso raccontare

questo mare di vigne di pigne di canne sonanti

questo mare di figlie non posso raccontare

questo mare di muri di schianti di genti migranti

questo mare di case di caste di cagne festanti

questo mare di festa finita di serpi e serpenti,

questo mare di vita,


ma l'acqua è tornata alle fontane

acqua rigenerata alle sorgenti

vita rinnovata ad altra vita,


(Da: Premio Nazionale di Poesia “Tre Fontane”, Campobello di Mazara, 1999)


Chiara primavera del

Chiara primavera del mio primo canto

nel deserto della nuova gioventù, amore,

l'altra parte di me, la mia debolezza,

nella tua conca si è riconosciuta

come acqua piovana nella schiuma del mare;



se amare è godere, non ti ha ferito

la spina del cardo nel palmo della mano

dove ho bagnato la bocca, stanca e arida,

tu la mia forza, la mia insicurezza ardita,

tu vela alla mia sete di vento;


con te ho saputo che la vera metafisica

è solo l'evidenza dell'evento,

il resto è gorgo di discorsi lisi

trastullo degli dei del disamore;


ora che non ci sei si fu troppo vera

la bellezza di quella troppo bella verità,

così, diviso da me, mi cerco e sento

nostalgia, del me che hai portato via



Mistilinguismo e mescidanza sonora nella poesia di Giovanni Commare
di Antonino Contiliano

La lingua batte (ediz. Passigli Poesia, Firenze, 2006) di Giovanni Commare è un libro che ripartisce la sua raccolta poetica secondo un criterio stagionale. Il suo incipit è equinoziale – una situazione spazio-temporale in cui due punti e due istanti coincidono e la durata delle notte e del giorno è uguale – ; qui l’ eterno presente è l’hic et nunc dell’“occhio che vede orecchio che sente” e una parola che – scrive Mario Luzi, e ripete Giovanni Commare – il poeta prende dal contesto storico e sociale in cui vive, e perché “on ne parle point dans l’eternité” (p. 32). È il presente in cui opera, spera, si agita e agisce, perché qui “ il poeta è innanzitutto / uno che avverte come non sua / la parola che usa” e “Uno se mai che agisce / Cosciente espressione delle necessità che le cose accadano, / Insieme si va tra compagni perché sia la fiamma / Alimentata da una convivenza sentita e affettuosa / Non solo perché ci si conosce e riconosce gente /Onesta che vuole le stesse cose / […] Antagoniste e il potere operaio non circola, / Ma ci sono uomini che fanno le cose come vanno fatte”. E le cose per cui agisce, parla e scrive sono di tutti e ciascuno; sono di politica e d’amore, di godimento ancora possibile di fronte a un evento che ti seduce di terrore e rifiuto per ciò che ripugna e induce ver-gogna.
La stagione prima è annunciata da certi sogni, frasi magiche, inspiegabili, affascinanti o misteriose per “il suono e niente più” (g.p.).
La stagione seconda scandaglia “la superficie delle cose “che “è inesauribile” (i.c.).
La stagione terza fa leggere “la parola” poetica nel tra degli spazi minimi, continui o discreti, del dis-correre, dove, appunto, si ferma, sosta, “sopravvive”, vive “negli interstizi del discorso” (g.c.).
La stagione quarta invece pone l’orecchio in ascolto presso “una fessura” per sentire “queste vostre parole” (f.d.) e, forse, anche le nostre, aspettando di portarci alla fine e in attesa di un fermarsi del sole appunto nel “solstizio”. In questo so-stare dove “l’aria è fresca” e “ il dopo dura” e dove forse “fra cent’anni un’altra” avventura, un’altra stazione di transito darà un’altra messe di promesse. Poetiche. Siamo arrivati alla fine del libro e alle sue cose ultime e riassettate, le ultime note, ma anche l’uso e il riuso di chiavi critiche poste tra il lettore e gli stessi testi dell’autore.
Sono, queste, le parole, per esempio, di Davide Sparti che, marcando la sonorità insistita dei testi poetici di La lingua batte, richiama l’attenzione sul “significante”, la “phonè” e l’oscillante ambigua ricerca del significato e/o senso della vita, o come sembra dire, utilizzando Wittgenstein, un gioco linguistico stirato sul “doppio registro, fonetico e semantico […] della doppiezza e dell’ambiguità della vita” quando nell’agorà è conflitto e partita tra il significato d’uso o di scambio dei significati e dei messaggi circolanti della lingua quotidiana, ma anche poetica o di altri linguaggi.
Ma la sonorità presente nei testi di La lingua batte di Giovanni Commare ci sembra risponda meglio a quello che oggi è la reale ibridazione della lingua d’uso come miscelato (maturale-artificiale e divenire storico); è il reale stesso che ne “rispecchia” la multiculturalità, e politica complessità di intreccio storico determinato, e di cui il mistilinguismo è il visibile dell’invisibile – “chiave di accesso remoto, / ai morti non morti, diversi / verso il cuore della creazione” (p. 50) o “[…] forma che persiste,/ nella sua essenza ogni vita è forma / e se integra la morte di consacra, // form is never more than an extension of content, / ora et labota il vecchio orto del racconto, / prima lavarsi gli occhi con l’oscurità, / per poter vedere di queste cose,” (p. 81) –, più che gioco di “significante”, e “phonè”. È la sonorità pratico-significante del nostro presente storico, il riccamente ideologico di una parola che il poeta “avverte non sua”, appunto perché parola di classe sociale multiculturale, e antagonista piuttosto che gioco linguistico individuale e percezione estetico-allusiva o seducente fenomenologia asettica.
Crediamo che la praxis della parola poetica del libro di Commare, La lingua batte, sia più rispondente all’intentio dell’opera e dell’autore, oltre che del lettore di estetica “ricezione”, se la paraxis della lingua d’uso wittgensteiniano si combina con il quella del “valore d’uso” (e non del “valore di scambio”) della comunicazione poetica e artistica, di cui la semiotica di Ferruccio Rossi-Landi (Il linguaggio come lavoro e come mercato”, in Semiotica e ideologia 1979) ha lasciato chiara testimonianza.
Ma i primi passi fra i testi, i ritmi e le sonorità di La lingua batte ci portano anche in mezzo agli intrecci dell’intertestualità e ai classici e comuni interrogativi di ogni poetare che vuole essere “arte-azione” nel/con il presente. In uno dei testi si legge: “Tutto è letteratura?” (p. 23). E la mente corre subito all’altro canone: “letteratura come vita”. Una letteratura che oltre a voler essere coscienza morale e giudizio, ci sembra, come nel caso di Giovanni Commare, non rifiuta di pagare il pedaggio alla storia in termini di una scelta critico-prassica facendo esplodere l’ideologia della falsa coscienza dell’“innocenza” (nessuno è innocente) e della giustizia, che non si è raggiunta anche quando sono stati uccisi i torturatori, e preso il boia. Le condizioni ideologiche e di potere, saltando a piè pari nel circolo delle determinazioni storiche, e con queste nella stessa lingua e negli stessi linguaggi, sono sempre lì, irrevocabili e in divenire; stanno a testimoniare che il presente non è lo stesso che il passato, che il futuro e ben lungi già dall’essere univocamente prefigurato.
Il presente risuona in lungo e in largo con il mistilinguismo e la sua sonorità ritmico-aritmica di sonar e radar che captano altre in-formazioni da sistemare e mettere in “forma”. Il poeta infatti sebbene si trovi bene nel caos, e qualche volta vuole “sciogliere” l’Io nel “séntiri” – “séntiri picchì c’è di séntiri / in questa storia, l’io è un incidente, / sussù yi didipé bé núwo gi /afo sosso do gònessesse, / endrowò ognì nussessé /nuwòwò núgnagna o popúa” – , non allontana la forma. Se c’è uno spazio che si corruga, si piega e si “frattalizza” ci deve pur essere un ordine, di scala in scala, da qualche parte, cui si deve dare visibilità e udibilità.
Così La lingua batte, e solo per restringere il campo, ha un universo del discorso che non è solo mondo-letteratura o autosufficienza poetica senza nessi logici. L’insieme è strutturato di richiami, chiari o allusi, a una poesia che, insieme con la scelta “etica”, mette in campo anche i suoi legami con il quotidiano, vissuto personale e sociale, e la storia materiale di questi anni (e altro) tra il verbale e innesti non verbali, sonori e risonanti altro.
E ciò non foss’altro che per le “crisi di sovrapproduzione e il gran botto” (p. 15), o perché “lo sai che non è poi un gran male / l’economia che non cresce la crisi del capitale” (p. 35); o perché “la situazione è fuori controllo” (p. 67) e non sai se prima finisce l’aria o il petrolio, o perché “devo ancora mettere le redini alla vita” (p. 43), visto che “grande è il disordine sotto il cielo” – ma Mao direbbe che “la situazione è ottima” – per cui “desidero attraversare i tuoi sogni, / perciò tieniti al dunque e stai contenta” (p.54) –, o proprio per i due richiami a Paul Klee e Walter Benjamin, fortissimi e presenti compagni di viaggio del poeta.
Rimandi, quest’ultimi, leggibili lungo il tracciato di una poesia del “frammento” e dell’immagine o del pensiero-per-immagini che rompono la “totalità” del reale compiuto. È, infatti, la poesia di uno che si sente “proprio a casa sua in questo caos”, perché, concluso il processo proletariato, “[…] / lascia che tutto scorra a occhi fermi / di una fata turchina […] / dove la lingua batte e duole” (p. 52), e che la forma e l’azione (come scrive in altri testi a p. 81 e 87) persista e “fanno le cose che vanno fatte”; “[…] // il terribile tenersi terra terra, / cercare di fare ciò che si dice / e dire il far,” (p. 31). Se, come dice (in appendice) Commare “L'essere è essere linguistico e non vi è evento o cosa nella natura animata o inanimata che non partecipi in qualche modo della lingua, c’è, anche, come ha indicato Marx (L’ideologia tedesca), un pensiero che, vista la realtà nel linguaggio, poi deve trovare anche la strada per scendere dalla lingua nella vita e “fare”.
Dopo i campi di concentramento e sterminio di ieri e di oggi, Hiroshima e Nagasaki, Guantanamo e Abu Ghraib, le guerre umanitarie e infinite, i terrorismi e i genocidi (anche per fame e sete) c’è veramente bisogno, necessità, obbligo di un pensiero e di un’azione che pensino contro se stessi calcolanti e strumentali; c’è obbligo di una poesia sovversiva e anarchica come ha detto Hans Magnus Enzensberger (anche Sanguineti). Una poesia che ha il potere della ‘potenza’, la ‘potenza’ che non riconosce il potere delle idee dominanti, che sono sempre quelle della classe dominante, quella cioè che detiene e amministra il sistema delle forze produttive, dei rapporti sociali e del ciclo di riproduzione in atto: “per il potere, che non può riconoscere altra arché oltre se stesso, la poesia è anarchica; intollerabile, perché non la può strumentalizzare; sovversiva per il solo fatto che esiste... La poesia tramanda il futuro. Di fronte alle realizzazioni del presente, essa ricorda l'evidenza: ciò che non è ancora stato realizzato”. L’“inutile” della poesia , il suo non essere merce di scambio o valore di mercato è il come se dell’angelo della storia di Klee e Benjamin, una rottura nel fluire della continuità delle cose e una sosta. È il dare voce a quelle del passato ancora non realizzate e guardare al futuro come a un a venire dialetticamente aperto tra disperazione e speranza o, se volete, dolori e amori (con passione) accompagnati da suoni e ritmi blues.
Suoni e i ritmi blues che si esplicitano nella sonorità semantica, variamente coltivata (rima, rima interna, allitterazioni, consonanze e assonanze, e varietà di accenti), o altro ancora nella sperimentata mescidanza mistilinguistica, e sonora o, a volte, della non discorsività aforismatica, perché sono un altro varco, specifico del linguaggio d’uso e “messaggio” poetico circolante e temporalizzato storicamente, e per stare nel mondo della vita vissuta e della storia a venire.
Marsala, Gennaio 2010

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