venerdì 1 gennaio 2010

Lucio Zinna

Zinna Lucio è nato a Mazara del Vallo (1938). Vive a Palermo. Ha pubblicato:
Poesia
Il filobus dei giorni, Palermo, Editoriale M. A. David Malato, Quaderni del Ciclope, 1964; Un rapido celiare, Palermo, Quaderni del cormorano, 1974; Sàgana, Crotone-Palermo, Il Punto, 1976; Sàgana, con 5 acqueforti-acquetinte di Angelo Denaro, Firenze, Edigrafica, 1978; Tabes, con 4 litografie a colori di Franco Lo Cascio e uno scritto di Alfredo Todisco, Treviso, La Cave d’Arte, 1979; Sàgana/2, con 3 acqueforti–acquetinte di Angelo Denaro, Palermo, La Bottega di Hefesto, 1986; Abbandonare Troia, Forlì, Forum/Quinta Generazione, Collana “Poesia 80”, 1986; Bonsai (con 3 dediche grafiche di Nicolò D’Alessandro), Palermo, I.L.A. Palma, 1989; Sàgana e dopo, Ragusa, Cultura Duemila, 1991; Rugaciune pentru eliberatori (traduzione di Stephan Damian), Craiova, Editura Europa, 1991; La Casarca, Palermo, La Centona, 1992; Il verso di vivere, Marina di Minturno, Caramanica Editore, 1994; La porcellana più fine, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2002; Poesie a mezz’aria, Faloppio (CO), LietoColle, 2009.
Narrativa
Antimonium 14, Palermo, Quaderni del cormorano, 1967; Come un sogno incredibile – Ipotesi sul caso Nievo, Pisa, Giardini, 1980; Il ponte dell’ammiraglio e altre narrazioni, Palermo, Thule, 1986; Trittico clandestino, Siracusa, Ediprint/Arnaldo Lombardi, 1991; Quando bevea Rosmunda, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2001; I pugnalatori del 1862; Il delitto Notarbartolo in G. Mele, A. Vecchio, L. Zinna, I «Gialli » di Palermo, Palermo, Antares, 2005; Il caso Nievo – Morte di un garibaldino, Marina di Minturno, Caramanica, 2006.
Saggistica
Le antinomie del quotidiano nel Preludio di «Marionette, che passione…!» di Rosso di San Secondo, in Aa.Vv. Pier Maria Rosso di San Secondo nella letteratura italiana del Novecento (a cura di A. Pellegrino), Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990; Il «nero» canto del cigno, in Av. Vv. Omaggio a Marino Piazzolla, vol. II, Roma, Fondazione Piazzolla, 1993; Amare pieghe di una dimensione selvaggia, in Aa.Vv. Attardi – Del corpo, nell’anima, Palermo, Kaleghè, 1998; Sicily (testo critico e antologia) in Dialect poetry of Southern Italy (a cura di L. Bonaffini), New York, Legas, 1999; Nietzsche e Kafka, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2001; Due letture dantesche, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2002; Nino De Vita e il mondo di Cutusio, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2002; Gli equilibri della poesia, Quaderni di Arenaria, Palermo, 2003; La parola e l’isola – Opere e figure del Novecento letterario siciliano – Palermo, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, 2007; Perbenismo e trasgressione nel “Pinocchio” di Collodi, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2008; Il mondo narrativo di Luciano Domanti. Palermo, ILA Palma, 2008; Stagioni della vita e metafore della “soglia” nel realismo radicale di Leopardi, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2009.
Traduzioni
Paul Valéry, Il cimitero marino (con testo a fronte), in «Nuovo Romanticismo», Palermo, n°2, 1984; Pierre-Jean Jouve, Primo amore, in Une sorcière blonde – Poesie d’amore del 900 francese (a cura di A. Cappi), Editoriale Sornetti, Mantova, 1999; Guillaume Apollinaire, Il ponte Mirabeau, in «Nuovo Frontespizio», Rimini, a. XXV, n.s., n°1, giugno 2003. Traduzioni dal siciliano di testi poetici di; Giovanni Meli, Alessio Di Giovanni, Ignazio Buttitta, Santo Calì.

Lucio Zinna con Mario Luzi, Palermo 1990

POESIE
(da “Poesie a mezz’aria”, LietoColle, 2009)

Per Vincenzina


Considerò ogni motivo di alterazione
immeritevole di attentare alla sua calma
operosa tenne fede ai segreti e i suoi consigli
di vaste saggezze spianarono le occasioni
che li generarono. Giungono anche a me
pacati ora che il bambino di un tempo
è divenuto un «distinto signore»
che ha trovato e smarrito la sua «mezza
età» (e i consigli dovrebbe darli lui).
Doviziosa non di denari accrebbe con azioni
non quotate in borsa le risorse del marito
assistente di farmacia facendo capitale
dell'accorta gestione domestica.
Nel dopoguerra in cui il cibo era zaffiro
e ametista — e ancora dopo — mendicanti
e clochard scandirono la sua giornata
sul battente della sua porta. Lei moltiplicò
pani e pesci (e gnocchi e mele e fagioli)
poiché nei poveri riconobbe il Cristo
(e lui la riconobbe agnello del suo gregge).
Morì povera e fu non eclatante esempio
di santità inconsapevole se non clandestina
di cui tutti s'erano accorti tranne lei
e la parrocchia frequentata al minimo influente.
Ti canonizzo io zia Vincenzina
nel dantesco «lago del cuore»
senza postulatori e avvocati del diavolo
né cerimoniali stendardi immaginette
senza nemmeno le preghiere di cui i santi
«veri» pare vadano ghiotti.



Come un Antifaust


Dagli anni cumulati nel ricordo
(a immediata percezione paiono
giorni e sono invece materia
di densa biografia) derivo –
e assaporo – questa imprevedibile
sempre incompleta messe
di esperienze (solitamente
spacciata per saggezza) incapace
di stare ai canoni a volte fastidiosa
nella gestione strategica
del quotidiano. Con cartesiane
chiarezza ed evidenza ora ri-considero
alcune intuizioni-chiave di età
adolescenziale e il resistere eroico
di giovanili ardori (poi che tende
la vita all'autotutela).
Vado confermando la convinzione
di non voler tornare indietro (ove
possibile) come un antifaust
che non ha anima da vendere
(né donare). Mi tengo com'è
questo straccio d'anima
con suoi errori risorse rimpianti
parimenti elevabili a potenza.
Centellino l'incipit di questo
declinante lasso come di primo
mattino la tazzina di caffè
o un petit di slìvovitz a cena.


Canzone Triste per un Piccolo Indifeso


Chi permette che il male biologico
e la violenza e la stupidità (la bêtise
flaubertiana) si riversino
sull'infanzia e gli indifesi?
Da quale cielo può consentirsi
lo squarcio di tenere esistenze?
Me lo chiedo ora che gli anni
non mi sono più lievi
e dovrei conoscere la risposta.

Ribollono le cronache di variegati
orrori insiste l'uomo a farsi
di se stesso nemico costruisce alibi
si fa scudo del divino per sopprimersi
pur di sopprimere.

Continua il tarlo a chiedere
quote alla nostra corporale
fragilità. Ascolto la storia
del bambino finito da una rara
forma leucemica mentre a fili
di pena luminava una speranza.
Una Via Dolorosa percorsa
da Salvatore di Roccapalumba –
scomparso all'età di cinque anni –
che attese un difficile intervento
«anche a vivo pur di guarire» –
confidò – come chi è maturato
all'algido fuoco della sofferenza.
A lui gli anni erano cresciuti addosso
correndo impazziti sul quadrante.

In quale cielo si recidono steli per farne
putti di corti celesti quale Dio creerebbe
così i suoi angeli quale Dio mio Dio?
A sussurri ci giungono strazianti responsi
dagli indifesi – fanciulli barboni passanti
animali fiori e quanti e quanti – piccole
vite accucciate nel cuore sulla ripida via
del nostro dirci «uomini». Esserlo.



Tra un “guscio di noce” e una “tenda indiana”
la poesia di Lucio Zinna

di Antonino Contiliano



“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella tua filosofia” (William Shakespeare). In forma aforismatica, questa espressione è stata la risposta di Amleto all’amico, allorquando, di fronte allo spettro che chiedeva di giurare vendetta sulla spada e ad Amleto, che invitava a cambiare luogo, Orazio, esternando un suo pensiero, aveva detto: “ Per il giorno e la notte, questo è miracoloso e strano.”
Miracoloso e strano perché è anche vero, forse, che le cose, le percezioni visualizzate e gli “spettri” – lo spettro del padre di Amleto si è reso visibile agli occhi del figlio, non meno di quanto, direbbe J. Derida, oggi dello spettro (Spettri di Marx) che si aggira per l’Europa – che abitano l’universo sono infiniti, così come è vero che la loro referenza (che non è mai e solo descrittiva o denotativo-estensionale), colta anche stando in un “guscio di noce”, direbbe, sempre, lo stesso Amleto, potrebbe farmi/ci sentire “un re dello spazio infinito, se non facessi – facessimo (corsivo nostro) – cattivi sogni”.
È come dire che Shakespeare – il poeta – è consapevole che il “delirio” della poesia, nel momento in cui crea i suoi oggetti o ne cerca la referenza, direttamente, o servendosi di altri personaggi, non è mai possibile percorrerlo senza quella lucida razionalità e controllata consapevolezza, avvertibili nel dubbio o nella critica o nell’ironia – (più o meno marcata, o allusiva e fine; garbata, ma sicura, penetrante e “in cui si dice (con canto sommesso / non ci sia nulla che possa mancare” – p. 52; oppure “…/ chiaro ti fu ab ovo che in ciascuno / di noi una forza promana dal fare / la propria parte (se a povera / gente è rivolta). Dell’altra / si occupa Dio che vedendo – per l’appunto – provvede” – p. 51) – auto-etero-relazionale per cose strappate alle fasce del silenzio dell’audience contemporanea, che confina il pensiero nella realtà video-telemarket omologandolo. Perché il silenzio di queste cose strane, o tali perché figlie/faglie dello straniamento poetico, gorgoglio di coaguli e fermenti sismici, vanno auscultate pur – e soprattutto – tra le antigrammaticalità, le sonorità semantiche e paradossali di cui solo il linguaggio della poesia è capace allargando l’orizzonte del sentire/capire. La poesia, sfumata per quanto possa essere, ha sempre dei referenti espliciti e/o allusi, perché senza queste presupposizioni sarebbe un girare a vuoto, e non “utile” a nessuno. Essa, d'altronde, procede con testualizzazione e contestualizzazione esplicitando la stratificazione del discorso poetico come intreccio formo-sostanziale di strette correlazioni tra i singoli strati (fonologico, ritmico, temporale, etc.), che, nella comunicazione poetica, sarebbe assurdo separare dal contenuto. Anzi, per esempio, spesso, in tal senso, la ripetizione, le isotopie, le trasgressioni sintattiche e logiche, etc. – alias i “luoghi comuni” o, modernamente, il patrimonio del general intellect appartenente al mondo dell’arte, prodotto (socialmente e individualmente), nel/dal campo della semiosfera poetica, dalla stessa lingua della comune soggettivazione della poesia (e quale espediente di retorica poietica) – incrementano la comunicazione significante senza dissociare, comunque, l’elocuzione/enunciazione della parola nel verso dal pensiero connessovi. Quella possibilità di comunicazione poetica cioè che, come un antibiotico a largo spettro (polisemia), interessa l’ipotetico lettore e che della stessa poesia fa una potenza aseica e un conatus (spinoziano) di ordo rerum est ordo idearum connessi; e che, come nel caso della poesia di Zinna, ne qualifica le passioni o il sentire, crediamo, come “affectus” di quell’essere egli uno “straccio” dell’anima sua, la quale è, poi, la sua stessa corporeità esistenziale e resistenziale storicamente determinata. Come dire che nessuna complicità il poeta concede all’odierno stupidario dell’emozionale mercificato, di torto e dritto o di cotto e di crudo, per accattivarsi il cliente messo totalmente a servizio del profitto.
Un’anima che è tutt’uno con la mente, il corpo e la storia del poeta/re – “vado confermando la convinzione / di non voler tornare indietro (ove / possibile) come un antifaust / che non ha anima da vendere / (né donare). Mi tengo com’è / questo straccio d’anima / con suoi errori risorse rimpianti / parimenti elevabili a potenza. / Centellino l’incipit di questo / declinante lasso come di primo / mattino la tazzina di caffè / o un petit di slìvovitz a cena” (p. 30) – di questa singolare “resistenza” che è la scrittura poetica dell’autore.
Sì, perché, crediamo, comunque, che la poesia e i versi dei testi poetici del poeta – liriche corde quanto discorsivo procedere, che inframettono parche parentesi (quanto basta!) o riflessioni non a latere, sono in forma (non di rado) ossimorica. Ne fa testo, crediamo, l’inquieto contrasto – contraddizione – che drammatizza il consuntivo della quadratura. I lati del quadrato “si torna”, infatti, sono tagliati dalla “diagonalizzazione” (l’ossimoricità che si concretizza nell’ambiguità messa in circolo dal connettivo “e”) dell’essere insieme “lievi” e “gravi”.
La modalità ossimorica, però, del dire e del dis-dire ossimoricamente “sottovoce”, nella forma – più che della drammaticità forte dell’antitesi netta o della distensione della coincidenza degli opposti – della dissociazione dell’ambiguo “Lievi di baldanza gravi d’esperienza si torna / a fragilità d’infanti satura lanx di pretesi consuntivi (ma il corto orizzonte turba / le quadrature) gioco di carte […]” (p. 29), così, ipotizziamo, conserva sempre il “valore d’uso” della resistenza all’ovvio del banale e del senso comune. È, insistiamo, la resistenza della semantica “utile” – ma non certamente spendibile come “valore di scambio” sul mercato dell’immateriale artistico – che, in quanto attrito e ferita, che negano lo stupidario comunicativo degli spot pubblicitari consumistici (spesso, purtroppo, chiamando a consumo anche le chiavi del linguaggio della poesia), è la resistenza del profondo e quotidiano vivere che non si lascia coinvolgere nell’usura della modernizzazione formattante, a tutti i costi, ogni coscienza con l’estetizzazione di messaggi mistificanti, particolarmente insistiti.
La sua utilità (della parola poetica) è bensì, allora, quella della conoscenza e dell’azione che non si fanno intimidire dai limiti imposti da chi, e oggi (non sono pochi), vorrebbe imbavagliare la libertà di pensiero e, al tempo stesso, imbrigliare la “creatività” entro il copyright della produzione del consumo per il consumo, anche lirico-liricizzante, o entro i limiti dell’emozionalità diffusa e consolante acritica, svendendo i valori individuali e sociali che, comunque, hanno dato senso e direzione alle scelte di ognuno e motivato quelle attese, le quali, annusate/assaporate a “mezz’aria”, aspettavano un varco, il kairòs per il loro futuro possibile. Quel varco metaforico della “mezz’aria”, che, come dice lo stesso poeta Zinna, – in una piccola nota esplicativa (p. 13), dopo la pagina dedicata a degli esergo poetici, – oltre a voler dire e visualizzare il “tra” dell’intertestualità shakespeariana, può anche essere, nell’esercizio dell’equitazione, il salto del cavallo “fra il terra-terra e la corvetta (da “corbette”: aria in cui il cavallo esegue una serie di piccoli salti con eguale cadenza) ”.
Tu, lettore di oggi, invece, tornando alle cose di “mezz’aria” del poeta Lucio Zinna, alcune di queste inutili/utili chances, che sono tra la terra e il cielo, ma fuori corso dal tuo possibile quotidie flessibile e precario, ammannito nel/dal reale virtuale odierno, e sussunto nella misura astratta del tempo del capitale, puoi trovarle nel laboratorio della temporalità poetica dello scrittore palermitano (d’adozione; mazarese per nascita; saggista e critico).
L’opera che le contiene è “Poesie a mezz’aria” (LietoColle, Faloppio, CO). Ne indichiamo, intanto e d’acchitto, il nome che titola le sue cinque sezioni, ognuna delle quali, poi, porta la/e poesia/e. I nomi delle denominazioni generali sono: Transiti, Legami, Trittico per l’una, Insolarità, Stanze agiografiche.
Tra queste cose, il poeta si muove in “tenda indiana” – il “guscio di noce” di Amleto –, e in compagnia, si fa per dire, della moglie Elide (Il libro porta la seguente dedica: “ A / Elide/ alla nostra/ tenda indiana”) s’inoltra per i siti e gli ansiti dei tr-an-siti delle “migrazioni”, come le cicogne/gru di brechtiana memoria volano fra lontano, fra le nuvole. Per non aver spezzate le ali, dal fucile delle dittature democratiche dei cacciatori di teste odierne – che, degni eredi dei totalitarismi di ieri e della politica dell’esclusione/eliminazione concentrazionaria e di stermino, fanno le guerre infinite, costruiscono i campi di Guantánamo e spiccano i voli della rendition (complici i governi dell’alleanza) –, o non morire per altre asfissie, decidono, come si legge in una poesia, di portare via tutto: se stessi.

Poter migrare / come gru / come cicogne // un balzo / verso l’alto / da un tetto / di tegole rosse / un primo / battito d’ali // e via / in direzione / dell’altrove // fra nuvole e terra / sostando su un camino / o una torretta / e poi avanti // lontano // portandosi appresso tutto / vale a dire / se stessi (p. 21).

È la tenda dei nomadi, di quelli che non abbandonano mai la propria terra – il deserto, le grandi pianure, la poesia –, il suo luogo a “mezz’aria” di appartenenza/referenza, e migrazione interna, che acquista più valore quanto più il presente che lo contrasta è alluso, ironicamente e amaramente, per spie minime e mortalmente efficaci: “Sarebbe riduttivo appellarla “gattara” / (etiam “gattofila”) Claudiana non sospettò / di essere espressione di un nuovo / umanesimo (secondo cui ogni vivente / è – a pari dignità – abitante del pianeta) né di equivalere per quelle anime bambine / a una Madre Teresa di Calcutta” (p. 50).
È un viaggio in tenda indiana dove i viaggiatori, infatti, in mezzo ai “gas di scarico” respirano, come “sapore d’infanzia” la rianata, mentre il poeta, consapevole che “passa tutto / (anche il futuro)” (p. 18), invita la compagna di viaggio, “con (inquieta) gratitudine” a non sprecare la “dolcezza di sorrisi (non sprecarli / i sorrisi destinali a sicure consonanze / fanne dono non stereotipo)” (p. 17); altrove lo fa invitando al caffè che offre “di addormire il destino / intepidire l’intrepidezza dell’ignoto / la soffusa realtà del giorno / paghi di essere comunque qui / comunque insieme / fatti certi dalla stessa incertezza / nella lustrura posto-pluviale / di un imbronciato mattino qualsiasi” (Lustrura, p. 19). E lo fa sia insistendo sulla valenza logica del “no” (sintatticamente lavorato con il “non sprecare”, “non sprecarli”, “non stereotipo”), sia con la funzione e senso-espressiva, per esempio, di “intepidire l’intrepidezza”, che, se non fosse per la marcata allitterazione e la stessa dissonanza lessicale delle parole associate, potrebbe dare adito all’impiego della “derivatio”.
In altri testi, altri sono gli “spettri” (e reali) – un mondo fatto di cose e affetti semplici e profondi, ma derisi e sottovalutati, o svenduti dal mercato globale del presente in atto – che animano questa silloge poetica di Lucio Zinna. Sono: il cuore che – “era il cuore” – che riaccende le “mute vibrazioni” di un tempo di fronte allo spaginarsi di un “foto album” (p. 25); l’“abitare fantasmi / cedere a turchine lenzuola / sorprendere palpebre / a un elios marino” (p. 26); l’amore per i quattro gatti (Raffaele, Leo, Flint e Clotilde) che con il poeta, nella casa palermitana, specie il gatto Raffaele, hanno condiviso spazi, umori, intesi segreti conversazionali e sofferte subitanee visite di estranei; il riconoscimento non convenzionale, e di genere parte-cipato, delle cure filiali prodigate da “madre Teresa dei gatti”, etc.
Sono gli “affetti” di un poeta insulare che non guarda e vive la sua “Isola”, come altri, nell’ “isolitudine”, nella diaspora o nella “sicilitudine” a tinte psicologizzanti o sociologizzanti o di vittimismo demodé, ma nell’ampia “insolarità” delle costellazioni del “salso triangolo” che zàffera/no (ci piace verbalizzare un sostantivo – zafferano – profumato: “droga” forte e aromatica, amara e piccante) la partenza che approda e il ritorno che salpa, e del “qui” fanno un luogo di stupore e, “uccellando il mito”, amore e re-sistenza di “oppositivi diametri”.

nel salso triangolo
ove si capo/volgono
soglie e cimase
àstrachi e androni
e sono nelle arene
oppositivi i diametri
qui
ove tutto pare accessibile
e vertiginosamente lontano
appare endogena la lateralità
fermenta nel verso
si fa zibibbo e inzòlia
qui
— ove si parte approdando
e salpando si torna —
la dorata conca
il deidesertico vulcano
il sole salato
girasoli
papaveri
zafferano
generano abbacinante energia
e ogni distanza si converte
in privilegiata specola
mentre Icaro ingloba sottili filamenti
di silver in agili polimeri
uccellando il mito (p. 41)

Che il mito qui abbia il sorriso delle resistenza ludico/gioiosa e argomentativo dell’ironia, basta a dircelo il gerundio “uccellando” che lo determina e lo relaziona con l’azzeccato neologismo “deidesertico vulcano”, il sintagma che denota l’assenza, appunto, delle divinità (Vulcano & compagni?). Il poeta Zinna, a nostra memoria, non ha mai usato un neologismo a solo scopo decorativo, privo di agganci con l’intelligere.
Del resto l’ironia e la resistenza della produzione poetica di Zinna, unitamente a un lessico colto (italiano e non) e letterale-materiale, sono una costante — costante logica/linguistica — nell’azione poetica dell’autore; sono un impegno di libertà outsider (una premessa e una promessa sempre mantenuta; si ricorda, e non a caso, che è stato uno dei fondatori del Gruppo Beta di Palermo e sempre vicino all’Antigruppo siciliano). E di tutto ciò abbiamo avuto il piacere di dirne, già, fin dal 1989. Anno in cui la rivista “Libera Università di Trapani” ha pubblicato il nostro saggio “L’ironia nell’opera poetica e letteraria di Lucio Zinna”.
E qui non è improprio riesumare qualche passo di quel lavoro che, “giusta” una costante, direbbe G. Deleuze, si è attivato per cercare, nell’opera (Abbandonare Troia) del poeta palermitano, quella “lingua minore” (direbbe ancora G. Deleuze) che, in genere, è la poesia in quanto testo saputo e poeticamente lavorato per smascherare la lingua adulta e standardizzata.
Un’ironia, così,

soprattutto conoscitiva, provocatoria, pro-gettata in avanti, co¬municativo-progettante, indagatrice, […] processo meta-forico nel testo Abbandonare Troia […] Torsione e associazione, queste, che alle parole fanno dire e il già detto del tempo come “fatto” e il nuovo che può scaturire dal fitto che il lettore è condotto a intra-vedere ciò che non aveva visto prima o che non c'era ancora o a rivedere la memoria della propria vita e delle proprie scelte.
“…Venti lire non erano/ molte (poche neanche a quell’epoca) per considerare/ nostra semenza...", dice il poeta Zinna nella poesia Odore di Acetilene […].
Qui, per esempio, l'ironia è lo scarto tra l’alto significato, quasi assoluto e puro, del valore di “nostra semenza” — legato, fra l’altro, anche alla memoria dantesca — e il suo stesso deprezzamento legato invece alla misera somma di venti lire (non molte ma neanche poche, dice il poeta, considerata l'epoca) che ne profanizza e ne volgarizza l’altezza paragonandola ai semi di zucca, i quali sono gettati su una bancarella e rischiarati dall'odore grasso e violento dell'acetilene. […]
Attento com’è, il poeta Lucio Zinna, all’uso di termini nuovi, vecchi e rise¬mantizzati, rari e quotidiani — giusta la lezione di Majakovskij — e all’uso dell’interpunzione segnaletica, infatti, il «Piccolo» Lucio piega l’uso di queste costanti al fine del suo fare poesia.
Lo snodo dell’enjambement non viene turbato nella sua elegante declina¬zione dalla presenza di queste intermittenze parentetiche, furtive quanto deli¬cate e ben inseriti artifici precisanti, i quali consentono invece una più lunga catena di associazioni e una ri-comprensione ri-costruttiva aperta dei testi.
Le parentesi testimoniano che il “flusso” espressivo poetico e redazionale dell’autore non è uno scorrere automatico dei versi quanto piuttosto un atten¬to lavoro di composizione costruttiva. […]
L’ironia-interrogazione però, pur distendendosi, nel momento dell’“as¬semblage”, nel “dominio dell'organismo formale”, non impedisce al poeta l’uso di metafore (come, per esempio, “è canapa indiana la parola e cresce”) che vanno al di là del tradizionale lirismo soggettivo e dei significati circoscritti e chiusi.
Le metafore liriche usate da Lucio Zinna, infatti, sono anche informative e in continua espansione semantica, perché, attraverso il lavoro di torsione cui sono sottoposti concetti e parole, generano nuove conoscenze e sensi che di¬versamente rimarrebbero potenziali e nascosti nell'essere-possibilità.
Le metafore del nostro poeta sono portatrici di una risonanza che consente e legittima l'espansione di quella analogia contagiosa in base alla quale si col¬gono relazioni e corrispondenze non deducibili per sola via ipotetico-deduttiva.
Se guardiamo, per esempio, più da vicino, alcuni sintagmi metaforici come "si sgranocchiavano serate blu/ e nostalgie campestri un seme appresso all'altro" della poesia “Odore di acetilene”, e “... malinconia da stradivari.../” della poesia di “Il Bacio”, il nostro assunto risulta più evidente.
Le serate blu diventano ciò che non sono: semi da sgranocchiare con gusto; la malinconia diventa altra cosa che non è: stradivari. Questi cambiamenti e questi sensi, con tutto quello che le trasformazioni associative o identificanti delle metafore portano, possono essere operate solo dalle metafore vive che cambiano il mondo dato e il rapporto percettivo dell'uomo che guarda il mondo.

Quel mondo cui la poesia in quanto lexis, inscindibile dalla praxis per il suo valore di relazione con l’altro (presente o assente sia il soggetto) nella polis, deve guardare, appunto, con l’occhio poli-femico e in dissolvenza demistificante.
Ancora (e non ce ne voglia l’amico Lucio), se insistiamo sulla parola “politica” della sua resistenza poetica; si insiste per sottolineare il valore di bene comune e di “utilità” pubblica della sua scrittura poetica. Il valore cioè scelto (dall’autore) che, ieri come oggi, ha incorporato e liberato la libertà e il dissenso attraverso le poesie messe in circolo. Poesie che, curate in transcodificazione certa, sono ottimo vino d’annata conservato in botte di rovere e “impegno” diversamente agito, il quale, a sua volta, crediamo, testimoni anche la dimensione trans-linguistica dei testi stessi.
Tra i testi (e non senza difficoltà di scelta) proponiamo: “A volte qualcuno rimane” e “Resistenza” (Abbandonare Troia); “Per zio Turiddu”( Poesie a mezz’aria); e li indichiamo, perché, secondo noi, meglio confermano quella dimensione etico-politica d’impegno critico, poeticamente distillato, dell’ironia resistenziale ed esistenziale del poeta Zinna:

a) Di poesia mi reputo un antico drogato

(Iniziai per solitudine a quattordici anni
con spine Ili in terzarima a sedici mi bucavo
versisciolti più tardi m'iniettati — quel tanto —
parolibere in esperienze neoformaliste)

Da tempo mi coltivo (solitario) la roba
non soffro crisi d'astinenza evito cauteloso
l'overdose
M'affratello ai clandestini della parola
ai tossicopoesimani ai liricodipendenti
agli indifesi in più piaghe temuti dal potere
mentalmente perquisiti destinati a campi
di deconcentrazione

È canapa indiana la parola e cresce
in terra di libertà parola trasmutata
risignifìcata — vena musica, fionda — era
in principio

sarà anche alla fine

(A volte qualcuno rimane accartocciato
in un angolo accanto a versiringa a volle
poeti si muore


b) Resistenza

Imparo ogni giorno a costruirmi questa vita
contro visibili storture sotterranei tentativi
di sopraffazione spesso disancorato cerco
rammento propongo ampliamenti progressivi di umani
spazi ulteriori conquiste di civile dimensioni

Fido nella memoria. Altra funzione non v'è
che sia così cosciente così controllata così
di sé consapevole (Gallupppi). Vigile memoria
di sconfitta barbarie. Quando si vide il nero
proclamarsi luce ordine il caos quando la filosofia
della morte violenta pretese gloria nei secoli
fu obbligo — e sacrificio — lo smascheramento.

Nessuno passi più per il camino — mai. Tali
restano i roghi tali i lager se pure mutano
nome. Chi li gestisce con qualunque divisa
sempre si chiama aguzzino-carnefice-boia.
memoria passato freccia presente freccia futuro.

Coltivo un'utopia di nome libertà. Uomini e idee
andare sicuri nel mondo. Una possibile
utopia. A volte stringo i denti urlo se capita
difendo mi difendo continuamente resisto.

c) Per zio Turiddu
(nella ricorrenza del IV novembre)


Messa solenne a San Domenico
in memoria dei ragazzi
del quindici-diciotto sospesi
tra incomprensione del macello
e ipotesi di grandezze
poi caduti (da una parte e dall'altra).
A Turiddu – fratello di mia madre –
una granata staccò una gamba
morì dissanguato sul campo
a diciannove anni (nell'edificio
delle elementari al mio paese
gli intestarono un’aula).
Tutti giovani immolati – si disse –
sull’ara (di una migliore posterità.

Quella posterità siamo noi
confusi a chi – dopo di loro –
ci ha preceduto
un’altra accolta di santi poeti
eroi navigatori e intrallazzisti
di ogni era e di ogni euro
(moneta o vento che sia).
E assieme – loro e noi
ieri e oggi – sventagliamo
eroismi e canagliate
e brindiamo ora coi santi bevitori
in attesa di provvide Batignolles
ora coi rappresentanti del popolo
che sciolgono la libertà di tutti
in eristici acquamanili e per il lesso
(di carducciano malumore)
Si appagano assai più
di quattro paghe.


Con la poesia di questo autore, che, in metafora allegorizzante, vi trasporta il codice della droga, o si affratella “ai clandestini della parola /ai tossicopoesimani ai liricodipendenti /agli indifesi in più piaghe temuti dal potere”, o verseggia così desublimante, come nelle liriche che affrontano il passato e il presente – la posterità – come una genia, intrallazzisti e bevitori di bassa lega (padana, palude), non si può, pensiamo, non essere in consonanza. A maggior ragione quando mitraglia gli “eroismi” e le “canagliate” dei “rappresentanti del popolo”, intenti (questi) a sciogliere la libertà di tutti, o se nell’atteggiamento dissacratorio e giudiziale, che si legge fra le righe, spunta l’indicazione di un nuovo umanesimo, animale, e per cui “ogni vivente / è – a pari dignità – abitante del pianeta” (p. 50), mentre di pari passo smuore il geocentrismo antropomorfico e si accentua la desantificazione teologica.
Se Lucio Zinna è un poeta in proprio e/o “outsider”, come tanti altri poeti, siciliani e non, che non sopportano le stimmate delle definizioni dell’appartenenza ad “ismi”, con il patrimonio comune del general intellect, della poesia dei siciliani, tuttavia, con la comunità clandestina dei “tossicopoesimani” condivide quelle linee, a volte euclidee e tante altre volte non euclidee, che fanno della poesia, in genere, e della poesia dei poeti siciliani uno spazio ipersferico.
Quel modello di spazio-tempo poetico di “mezz’aria” che si apre e al tempo stesso si chiude come processo di contrazione e dilatazione, e cui non è sufficiente – come ci raccontano i diversi passaggi, per esempio, che possono datare la tradizione, le sperimentazioni, le avanguardie (gruppi e antigruppi, isolati o in compagnia), il barocco, il neorealismo, il neobarocco, la poesia non verbale et alia – una sola logica o un solo modello per dirci l’essere del suo divenire.

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