Giuseppe  Zagarrio Giuseppe è nato a Ravanusa (1921). Ha pubblicato:
“Le stagioni di maggio”, Roma, Il Canzoniere, 1953; “A questa terra non nostra”, Bologna, Leonardi, 1956; “Le ricamatrici della Kalsa”, Firenze, Quartiere, 1958; “Tra il dubbio e la ragione”, Caltanisetta-Roma, Sciascia, 1963. Altresono state pubblicate nella rivista “ Quartiere”, 19 (1964), e “Pensare per immagini”, in Antigruppo 73, Catania, Di Maria, 1973. 
Saggi: “Mario Luzi”, Firenze, La Nuova Italia, 1968; Salvatore Quasimodo, Firenze, La Nuova Italia, 1969; Franco Fortini, Firenze, Quartiere, 1963; “Sicilia e poesia contemporanea”, Caltanisetta-Roma, Sciascia, 1964; “Sereni”, “Roversi”, “Toti”, in “Letteratura italiana. Il Novecento”, Milano, Marzorati, 1979; “Febbre furore e fiele”, Milano, Mursia, 1983.
POESIE
(Da: Gli eredi del sole”, Il Vertice, Palermo, 1987)
Le terribili feste
Mais moi je ne veux rire à rien
ora che la coscienza è in agonia
e la dialettica non trova più gli opposti
e la fascia del tutto rulla sul globo
assordando di nero l'orbita e l'asse. 
Chi ha bisogno di piangere o di ridere? 
Chi ha bisogno di chiedere o di attendere? 
Ditemi se c'è un gesto d'amore
che faccia ancora storia...
Abolite dunque i dati parziali
                                                               fate
che il nemico sia solo il necessario
e aspettate la suprema Indifferenza 
che vi porga il lembo del mantello 
da stendere sugli occhi
                                                 allora il pallido cemento 
scorrerà lentamente dentro il sangue
e il freddo della pietra sarà la conclusione 
sarà il tuo nulla o il tuo tutto la vera compiutezza 
nell'istante che cessa l'ultimo istante.
(Da: “EquÍvalencÍas” – Revista Internacional de PoesÍa, Madrid, 1989)
Eppure È Ancora Un'alba
Dalla notte in subbuglio si riverbera tra i lampi 
il ghigno inalterato della belva 
zodiacale la marina ha invaso 
l'orizzonte celeste sul campo gonfio di pece
sprofonda il gorgo e certo non ha più scampo
lo scafo che rullando affonda 
sotto la mole a raffiche ora m'assale 
un vento di inadempienze il negativo
che ripropone cortei di focomelici 
e ingrigia gli occhi ripopola di mostri 
l’assenza il disimpegno l’esclusione 
da ogni attesa perfino le ultime domande 
—se la vita è (o no) la storia o se la morte 
alimenti di sé l'ira o lo scontro e il muoversi da opposti— 
anch’esse si tuffano nel nulla 
o nell'identico di questa (falsa?) 
notte che incalza a furia e si accumula sui segni 
del no(definitivo?)             Eppure è ancora un'alba sui segni di lutto 
la linea di chiarità tenta una forma 
di verità è scialbo —certo— ma non impossibile 
ricominciare sul riso barbarico 
si sa che ogni volta s'innesta un dolore e che aggredisce
l'orda la imbriglia l'affanna al l' indulgenza 
la inchioda a un'altra storia di pietà...             mi aspetto un altro grido dalla vita 
in ogni caso —così m'incoraggio— le forse un moto — perchè no 
mi dico in furia perchè non potrebbe?—
del cuore e della mente uno scatto d'impotenza 
magari un disappunto uno scherno un'insolenza 
l'aggrottare del ciglio la voglia di comprendere 
il tornare alle attese e immaginare il resistere l'insistere a sognare (o addirittura l'ilarità che irrompe 
all'improvviso dentro il delirio e risospinge a riva 
da chi sa quali abissi di memorie e d'azzurro 
l'infante e il balbettio la primizia insospettata di un consenso?)
Scirocco di cenere sul golfo
Scirocco di cenere sul golfo
soffia grigio e sgomento
alita incertezze giudizi sospesile 
tutto si fa assenza
ombre vagano mostri 
s'alternano nel cosmo 
quel che vibra 
è il segno della vipera 
che gonfia limo azzurro nelle vene 
e blocca il grido forse galoppano 
sequenze di memorie 
forse anche le attese sono all'erta 
ma il presente e questo fermo inferno 
che fa sudicio l'occhio e demonizza 
i gesti a ogni persona li fa spettri 
di un'altra norma lo speculare opposto 
del noi lontano di un'altra abitudine...
Eppure ho visto la zingara danzare 
sull'orlo del cratere 
radiosa di morte 
o non so di che vita 
ignota ai sensi fluivano parole 
dalle mani crocchianti e dalle fulve 
anche mentre dai fuochi si alzavano i leggeri 
sassi irrompendo sul fitto colore
del blu oltre-mare dell'alba del turchese. 
Oh non chiudermi il tuo varco
fachira infanzia mia ebbrezza primaria 
che apri a ventaglio gli anelli lampeggianti 
sulla mia ansia d'altro non permettere 
che io mi aggiri — anch'io dall'altra parte — 
coi bicchieri del brindisi a evitare 
nel labirinto geloso del mestiere 
l'incendio e la colata non schivarti 
e non cedere non fare che si attenui 
dagli occhi il faro del nero diamante 
che mi fa duro e infrangibile alla cronaca 
della nequizia e mi indispone alle rese 
come sci tu che allo stato nascente 
del cosmo ti rifai
                 e vomiti parole e fiamme 
dal coro dei millenni vissuta dalla terra 
e da noi da me teneramente in un possibile attimo.
Di gas o di galassie
Sai bene che la schiuma s'adorna di mercurio 
e che al fondo l'alga s'assottiglia
il sangue non è azzurro il miele è come assenzio 
tra l'unae l'altra sponda il pesce luna 
viaggia amaro e sadico non pensa 
più al richiamo né gli importa d'essere vittima
e preda oche s'ingolfi 
dentro la grotta l'ultimo lombrico
e il basso inganno. Eppure 
                                                 ti precipita nei sensi 
il rito inesprimibile           e tu ti sciogli 
non è evasione o emozione ma un'ansia d'altro 
che ti rimuove i nodi e ti sprofonda 
in abissi solenni     è di quell'altro il segno 
un ultrasuono 
dove tutto s'incurva e s’innatura 
nell'ambiguo messaggio        il tramonto cha forse è aurora 
lo aguazzo che s'indura          e vedi come tornano 
i colori dall'infanzia delle fedi                e come
s'accenda nel gelo il fuoco e ardente 
si faccia il vetro negli ultimi specchi 
dove smorto è il veleno              la macchia è un lampo innocuo 
e tu sci più forte e più deciso              più imprendibile 
ora che il minimo s'espande nel contrario 
e la trivella è un albero di nave
che s'impiglia nella prima stella 
non sa se bruciare di gas o di galassie
venerdì 1 gennaio 2010
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