NADIA CAVALERA
Le parole ritrovate (recensione)
Umberto e Marco Brancia, Non avevo le parole, (Città aperta, 2006)
Marco Brancia, Per parlare con la gente" (tipoedizioni, 2008)
L’autismo «classico» è una malattia grave, difficilissima da gestire e a tutt’oggi molto invalidante.
Ma una sua variante, la cosiddetta Sindrome di Asperger, presenta
possibilità di successo nella cura, nel senso che possono i soggetti
interessati garantirsi una vita possibile, se solo si interviene
prontamente, con sensibile intelligenza, pazienza, tenacia, e tanto
amore.
Doti che hanno ampiamente dimostrato Umberto e Lorenza, genitori di
Marco Brancia, un giovane uomo di trent’anni, che dopo svariate
traversie terapeutiche (diagnosi errate con “tre sentenze di morte”,
cure inappropriate), ma anche d’impatto sociale (meschine
incomprensioni, chiusure razzistiche), oggi può guardare al suo futuro
con prospettive più rassicuranti.
Certo per i genitori rimane sempre l’ansia del «dopo di noi». Ma intanto
il peggio è passato, e ripercorrerlo non può che giovare a rafforzare i
successi ottenuti e creare una solida base per proseguire avanti, e
alla quale far riferimento in futuro per qualsiasi emergenza.
E’ questo lo spirito che probabilmente avrà mosso Umberto Brancia a
scrivere col figlio Marco, in un pendant molto coinvolgente, “Non avevo
le parole”. Titolo che è poi la spiegazione semplice data «a voce
bassa», dal figlio, a percorso riabilitativo inoltrato, ad una domanda
impellente e fino ad allora taciuta del padre: «perché parlavi così
poco? ». Marco non parlava perché non aveva le parole. Viveva nel
silenzio di un mondo tutto suo, parallelo a quello che gli passava
davanti, senza riuscire ad agganciarlo in maniera stabile e proficua per
costruire il ponte che gli permettesse di esprimere la sua identità,
definendola. E solo nella prima adolescenza ha scoperto finalmente il
mezzo di fuga dallo stato di isolamento: le parole. E se ne è
innamorato.
Il libro, che, come recita il sottotitolo, è un «dialogo sulla malattia tra un padre e un figlio», è diviso in due parti.
Nella prima, Umberto, in forma epistolare, racconta al figlio la sua
vicenda sin dalla nascita corredandola di tutte le possibili notizie
utili a fissare l’immagine e il ruolo della famiglia e dei parenti più
prossimi, tra i quali s’impone la figura del nonno paterno, con la sua
giovialità, l’amore della conoscenza, la generosità, i racconti di
guerra o sulle origini siculo-campane.
Nella seconda parte, è Marco stesso a scrivere i suoi ricordi relativi
al periodo trascorso, arricchendoli in conclusione con suoi “Pensieri
personali”. I primi scaturiti, con gioioso entusiasmo, dalla padronanza
delle parole, dopo tante sofferenze per la loro mancanza e per
l’incapacità di articolarle in suoni. Ora, finalmente possedute,
tradotte in segni grafici, in un mix di impressioni ed espressioni, e
flash atemporali, le utilizza per scolpire il suo paesaggio interiore,
fatto di solitudine, (“sono sordo e chiuso dentro di me”), dominato
costantemente da un muro che lo isola e protegge nel contempo. Di qui lo
smarrimento (“cercavo sempre qualcosa che non sapevo”), e il naturale
bisogno d’amore. Affidato al suono del vento, al volto di una bellezza
mediterranea (“donna significa speranza, donna significa vita, /amore da
assaporare tutti i giorni”); cercato nella dolcezza di un prato, nella
caduta lieve delle foglie, nel silenzio, prigione e culla della voce che
dentro lo guida “come una danza” . E’ sempre l’amore responsabile
dell’immedesimazione con la natura, albero o lago o mare che sia.
Ma resta la madre la fonte primaria dei sentimenti. E quando dinanzi
alle descrizioni/evocazioni, l’emozione lo coglie più forte, la prima
similitudine o metafora che gli viene spontanea è quella che la vede
protagonista. E la madre, più spesso nella variante lessicale di mamma,
ricorre più volte in questi versi. Associata al vento “da saper toccare
con le mani quando arriva” e che per lui è prima “come una mamma, come
qualcosa di piacevole” per poi diventare, insieme al “profumo d’erba” e
le carezze, proprio “una seconda madre”. Anche il silenzio, “la
dolcezza, la tranquillità interiore”, è ascoltato da lui “tutti giorni
come una seconda mamma”. La stessa poesia (“io la sento dentro come una
seconda madre”), che lui vive anche “come una farfalla” e che, altrove,
in una felicissima associazione di idee, gli fa assaporare il tempo che
passa “come una volpe la mattina”. Alla ricerca di comprensione e
sostegno (“ho bisogno dell’aiuto che mi porta fino te”), mentre attende
il treno da non perdere (“il treno dev’essere un’occasione che devo
prendere”), forte però della scoperta ed appropriazione infine della sua
corporalità, decretata dalla poesia “Mio”: Mio è il corpo/ Mia la voce
che ho quando parlo./Mio è tutto quello che ho. Miei sono gli occhi che
guardano tutto.”.
Un testo importante questo (l’ho riportato integralmente) che prova indiscutibilmente l’avvenuto contatto tra i due mondi.
Marco non si limita solo a registrare ciò che vede, ma sa di essere lui a
farlo. Elabora consapevolmente i dati. Interagisce finalmente.
Ne è piena conferma la successiva silloge di pensieri e poesie, “Per
parlare con la gente” (Tipoedizioni, 2008). Dove, in 55 brevi testi
continua a raccontarsi. Per riconoscersi meglio nella sua individualità
(“mi guardo per parlarmi dentro”) e per mantenere il contatto
comunicativo con gli altri, indispensabile alla sua crescita psicologica
e comportamentale. Per consolidarlo e liberarlo da qualsiasi possibile
difficoltà che potrebbe ancora provocargli (“se uno comunica,/spesso si
sente in imbarazzo), per superare infine del tutto la fragilità sempre
incombente e di cui si direbbe spia la stessa poesia proposta con titoli
diversi (“Il Passaggio”, “Il passare degli anni”), quasi un retaggio
della vecchia coazione a ripetere.
E resta sempre affascinato dal silenzio in cui meglio si riconosce (“il
silenzio mi fa essere me stesso”), e che lo fa entrare in sintonia con
la natura, sciogliendolo in un sorriso spontaneo (“quando sorrido penso
alla natura /che è viva dentro di me”).
Ed ecco l’attenzione per gli alberi, per la pioggia che s’insinua la
sera sui suoi “pensieri personali”, ma anche per le rose, per le stelle,
incarnate nella metafora ancora una volta della madre. E soprattutto
per il mare, elemento primitivo, forse equivalente emotivamente al
silenzio, e che lui riconosce come sua componente essenziale che lo
tenta ad intermittenze (“il mare è una parte che torna sempre in me”).
Il mare è azzurro, “il colore della bellezza femminile”, è ammaliante.
Ma lui si impone di resistergli in una affermazione che sembra piuttosto
un autoconvincimento (“il mare è una parte di me che se ne sta
andando”).
Ora Marco è proiettato verso una realtà più piena e soddisfacente (“ho
voglia di sognare, di trovare un mondo diverso dal mio”). La indaga
attentamente (“osservo tutto quello che mi sa accanto”), con grande
interesse (“tutto mi attrae perché ho curiosità”), la rielabora
sistematicamente (“i miei occhi sono il mio pensiero”), nutrendosi di
musica e letture, anche ardite (“leggo quando parli”) e interrogandosi
sul dolore, la perfezione, la pazzia, sull’insensibilità e stupidità
degli uomini
In un percorso poetico autentico che, ne sono sicura, avrà in futuro, molte altre tappe.
Modena, agosto 2009
sabato 6 giugno 2009
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