Francesca Sassano, è nata a Potenza il 13.4.1964, (nxsas@tin.it), dove esercita la professione di avvocato . Pubblicista, è autrice di numerosi scritti giuridici, e di molteplici opere di narrativa, tra cui “Nata con le manette”, 2008; ” Come un foglio bianco”, 2008; “ Dentro di Te ”, 2008; “Angelina la straniera ” ; 2008; “ La donna d’angolo”, 2007; “ La figlia di Dietriz” 2006, “ Sotto la pelle”, 2005 ,“ Storielle un po’ matte”, 2002 ristampa; “ Pensieri sparsi in ultima fermata”, 2001; “ L’attesa” , 1996. Per il teatro: “E’ di scena la giustizia", commedia in quattro atti, 2005; Per la poesia: “ L’arancio Amaro”, 2006.
I
Una bambina sfortunata
Scrivere della giustizia è avere una scena a quadri irrisolti.
Possibili sviluppi sul dato incompleto delle norme, ipotesi di fiducia per idealisti di certezze nei vuoti della legge.
Ma quello che non è scritto o che è male espresso non è didattica di lungo periodo, troppo spesso è giustizia denegata.
Ed essa è tanto più amara quanto più destinatari degli infelici tentativi sono i minori.
Mi sono sempre chiesta il perché di una legge che non consenta a tutti di crescere i propri figli, la ratio di una epurazione della specie educatrice, sconosciuta al mondo ed al diritto naturale che, nel rispetto della persona , precede quello della certezza giuridica.
Non ho trovato una risposta, ancora, alla finalità di istituti, vari e poco armonizzati, come adozione, affido o affido-preadottivo.
Non ho molta dimestichezza con il funzionamento del supporto al sociale, forse perché stento a ritrovarlo nel concreto.
Invece mi chiedo, sempre con maggior frequenza, quale sia il percorso che il diritto per i minori ha intrapreso, quanto disti dallo spirito della norma e come si realizzi il bene del minore.
Mi verrebbe anche da aggiungere quale sia questo bene, il cui contenuto ha il volto di un'immagine di coppia tratta da standard inesistenti o immaginari.
Questa storia è forte e sofferente ed ha i tratti decisi della labbra di una bimba.
Nascere è già una scommessa ma è anche un destino.
Se il tuo è stato quello di avere una madre psicolabile ed un padre di oltre 70 anni allora, per il diritto, non hai genitori, meglio era per te l'abbandono dinnanzi alla porta del convento.
Questo è il senso di un provvedimento ablativo con il quale fosti presa e portata via, su ignota segnalazione di solerti vicini, pur essendo consapevoli gli operatori del diritto che nessuna violenza ti era mai stata fatta, che il tuo rendimento scolastico era buono, inspiegabilmente buono, ed il rapporto con tuo padre a dir poco ottimo.
Ma si diceva, quali prospettive avresti avuto, se tuo padre in età avanzata fosse morto?
E la presenza di tua madre, in costante cura e quindi senza eccessi ma pure fonte di sofferenza, quali devastazioni avrebbe prodotto nel tuo animo?
Per questo mandarono da te ogni giorno personale sociale a controllare che la tua casa fosse in ordine, che tutto nella vostra vita fosse a posto.
E nonostante gli sforzi tuoi e di tuo padre, ci fu chi fra loro scrisse che non stava bene per una bimba di sei anni fare faccende domestiche, come apparecchiare e sparecchiare o lavare i piatti, che tuo padre non ti portava mai ad un corso di danza, che tua madre era assente dalla realtà.
Così decisero che era meglio l'istituto, dove ti facevano rifare il letto, ma non lavavi i piatti e nessuno ti portò al corso di danza.
Tuo padre venne da me ed io per questo venni a trovarti in istituto.
Mi colpirono le tue labbra socchiuse, leggermente serrate, in un moto di rabbia e di disperazione.
Lo stesso tratto di quelle piene di rughe di tuo padre.
Non mi rivolgevi la parola, stavi come una bambola senza fili , ti consegnai il regalo di tuo padre, lo ritirasti rapida con una brusca presa e non l'apristi in mia presenza.
Non ti dissi la pietosa bugia che tuo padre non era potuto venire perché non stava bene, come lui stesso, nella speranza di rivederti presto, mi aveva chiesto di fare.
Preferii, come al mio solito, l'affondo crudo della verità e ti dissi che a tuo padre e a tua madre non era stato concesso ancora di vederti.
Registrai nel tuo sguardo un lampo di sollievo, capisti di non essere stata da loro abbandonata, ma fu troppo poco per creare con me una solidarietà, troppi volti estranei e tutti nemici avevi incontrato negli ultimi giorni.
Finché fosti in istituto venni sempre, nello scorrere dei tempi giudiziari, a trovarti per rendere presente il contatto con chi soffriva lontano da te.
Più difficile fu quanto ti affidarono e non sapemmo dove, né io potei portarti più i regali di tuo padre e di tua madre.
Ma tuo padre non si arrese e nonostante la sua età dopo qualche anno con un provvedimento successivo fu annullato il primo.
Intanto, tua madre era presso un istituto e tuo padre era ancora più avanti negli anni, tu avevi frequentato gli ultimi tre anni presso un'altra scuola e complessivamente dalla tua uscita di casa ne erano trascorsi quattro.
Non fu un successo quel provvedimento positivo, un'altra amarezza perché alla vittoria era da registrare la sconfitta del tempo e soprattutto che in questa ingenerosa altalena di togliere e di restituire, più di tutti era stata interrotta per ben due volte la tua vita.
Ti vidi a distanza di circa quattro anni, la stessa espressione in volto, le stesse labbra socchiuse ed imbronciate che ora, senza soddisfazione, potevo confrontare con quelle ancora più rugose di tuo padre.
E mi chiesi, come sempre , quale era il senso di un diritto che sacrifica la vita.
II
Soggetti deboli che non fanno notizia.
Il mio lavoro si occupa di diritto, delle aspettative dei soggetti ma di quelli deboli, che non fanno notizia, perché la loro sconfitta è priva di reazione e senza tutela.
Voglio parlarvi del sistema complicato di chiedere giustizia, del diritto come tensione dell'anima e come assenza di coazione.
Spero di interessarvi al rovescio del diritto, alle zone oscure che troppo spesso vengono dimenticate come angoli sporchi della costruzione, senza danno e senza riparazione.
Tutto questo senza molti tecnicismi, ma solo per capire fino in fondo se esiste una speranza di un equilibrio, del perché si scrive sul danno e sulla persone, di come ogni spazio conquistato al risarcimento sia un percorso in avanti per il riconoscimento di un diritto.
Le storie narrate sono vere, volti senza nome, ma pagine senza soluzione. Righi di dolore e di rassegnazione, perché il diritto quando non è applicabile è danno per la persona.
La prima storia ha gli occhi di due bimbi contesi tra due genitori.
Non è la solita separazione, non diremmo nulla di nuovo sull'inciviltà del preteso diritto genitoriale.
Questa situazione è più complessa.
Lui è un capo clan, lei è la moglie, per sorte sottomessa al marito, per autorità neanche più madre dei figli.
Ma non le basta chiudere gli occhi e guardare solo i suoi figli.
Lascia il marito e decide di collaborare con la giustizia . Accusa il marito e tutta la sua realtà.
La prendono in “protezione”, lei ed i due figli piccoli.
Nell'isolamento di una legge costruita su schemi irrazionali, lotta con l'assenza obbligatoria di parenti, con l'interruzione di ogni contatto amicale.
Rinuncia al programma di protezione e rientra con i figli nella citta d'origine. Non le accade nulla ed ha già avviato la separazione.
Intanto il marito inizia la sua collaborazione.
La richiesta è evidente: che i figli vengano tolti alla madre, per tutela degli stessi.
Lo Stato contro lo Stato perché sostituisce poteri provvisori urgenti a percorsi giudiziari lunghi.
E così avviene. I figli le vengono presi d'autorità. Lei non si rassegna. Ha iniziato a credere nei percorsi della giustizia e non si sente tradita dalla stessa. Presenta un reclamo in Corte d'Appello, le viene accolto.
I bimbi tornano a casa.
Ma dopo 24 ore vengono con nuovo provvedimento ripresi.
E lei non li vede e non li sente per circa quattro anni. Neanche una telefonata , senza una notizie sullo stato di salute, senza sapere il loro percorso scolastico.
Niente, una implicita decadenza della potestà genitoriale.
Nonostante un provvedimento di affido a suo favore e l'assenza di qualsivoglia indegnità.
Lei si ammala ma non smette la sua battaglia.
L'epilogo è amaro anche se vede un ritorno dei figli alla madre.
Ma bisogna sapere perché: il padre per scelta di contratto, cessa lo status di collaboratore chiede la “capitalizzazione“, una sorta di buonuscita vantaggiosa per lo Stato, non si sa se funzionale al resto.
Per questo i bimbi, a dispetto di quella pericolosità che ha indotto lo Stato a sottrarli alla madre, tornano a casa.
Come ho detto all'inizio questa storia ha gli occhi di questi bambini, che non riconoscono la madre, io li ho incontrati questi occhi, duri come la rassegnazione per l'inispiegabile, asciutti perché hanno perso in questi anni tutte le lacrime, tristi perché privi del sogno.
Per questi occhi la madre ha denunciato lo Stato ed ha chiesto il conto del danno, piccola cosa per tre vite stravolte dal gioco di poche carte.
III
Spazi del diritto e della follia
Questo è lo spazio del diritto, ma anche della follia.
L’impegno nato sotto il cielo, in un angolo di mondo isolato lambito dal mare, va mantenuto.
La promessa è quella di parlare di diritto ma al di sotto della cattedra, con la visione di una umanità che entra, ormai come numero, nelle aule di giustizia e tale vi esce o vi rimane
Questa storia è tutta nelle mani. Mani tremanti che parlano come fossero creature separate, occhi bassi che non si alzano mai oltre il torace di chi sta di fronte, sguardo assente, perso nel vuoto.
Ogni sei mesi il processo si aggiorna perché l’imputato non è in grado di stare in giudizio.
Ogni sei mesi il processo viene sospeso e viene nominato un consulente tecnico d’ufficio che deve necessariamente dire la stessa cosa del precedente, perché il diverso sarebbe un miracolo e, forse, anche i tuoi genitori sarebbero felici di una condanna a termine.
Ben poca cosa sarebbe il giudizio di un tribunale, rispetto alla pena di esibirti ogni sei mesi, in un calvario che viene risparmiato anche alle bestie da macello, ma ai deboli no, la legge non si cura della pena perché non fanno testo, non hanno opinione, sono un numero imperfetto messo all’angolo e dimenticato.
Ogni sei mesi ci si stupisce della tua presenza, sì, perché solo la tua morte interrompe il ciclo e non avviene data la tua giovane età , né si può volere che accada.
Ogni sei mesi varchi la soglia di quell’aula strana con un palco sopraelevato e banchi contrapposti e sbigottisci con le mani tremanti.
E’ vero, ti hanno nominato un curatore speciale, tua madre, che divide e raddoppia il tuo calvario.
Tu hai incendiato un motorino, è sicuramente un reato. Questo anche tua madre lo sa e lo accetta, come ha compreso che era inutile eccepire la tua ingiusta detenzione cautelare presso le carceri.
Poi, ti hanno rilasciato perché si sono resi conto che non rispondevi alle domande e che eri un po’ strano, io l’ho letto nella relazione ed ho depositato la tua copiosa documentazione medica, una vita fatta di piccoli passi in avanti e di ricadute pesanti, dove il tempo di un’esistenza non basta.
Il risultato è questo: ogni sei mesi si rinnova si rinnova questa farsa, io così l’intendo, una inutile circolare rappresentazione statica, l’immagine di una giustizia ottusa, perché bendata. Io ho scoperto solo le tue mani, so perché tremano senza tempo.
Quelle di tua madre, no, si attorcigliano come arbusti d’ulivo nervosi.
Ed io penso che a te è negata anche la grazia dello scorrere del tempo, il velo pietoso della dimenticanza che chiude ogni ferita e dà pace anche agli errori umani.
Il tuo stare in eterno giudizio evoca la circolare immagine di un ignavo da divina commedia.
Qui, nel tuo processo di divino c’è solo il tuo perdono, per una umanità che non riconosce la soglia tra il reato e la malattia, che persegue un ideale di correttezza giustiziale che fa del tuo processo una costosa macchina in moto perenne e di te un eterno giudicabile.
Ed io mi scopro senza mezzi, a scorrere nervosa i fogli di un processo inutile, tra le mie mani, ormai sofferenti, in questa attesa , come le vostre.
NICOLO' GIANELLI
Nicolò Gianelli è nato a Modena nel 1982. Sfugge alla monotonia della pianura padana rifugiandosi sulle vette della fantasia e da lassù scrive i suoi primi due libri: la raccolta di racconti "Oniriche" e il romanzo "Settembre non tornerà".Accorgendosi dei graffi e delle sbucciature sulla propria pelle si rende conto di vivere in un mondo ruvido, le cui pagine non sono affatto plastificate. Fonda perciò il movimento Emilia Ruvida che raccoglie tutti coloro che si sono graffiati sulla carta vetrata dell'Emilia.
Racconto inedito
Emilia, programmazione invernale
L'Emilia proietta un documentario.
Sempre quello, sempre lo stesso documentario.
E' come quei film alla “Mamma ho perso l'aereo” o “Una poltrona per due”, che li mandano tutti gli anni poco prima di Natale.
Ecco, è la stessa cosa. Tutti gli inverni l'Emilia proietta quell'unico documentario che conosciamo tutti a memoria.
Va in onda al mattino e alla sera, su finestre e finestrini. Non serve alcuna antenna parabolica, basta aprire le tende. E' sufficiente anche un piccolo lucernaio da dieci pollici. Oppure ti metti in viaggio e guardi fuori. I treni, per esempio, sono muniti di centinaia di schermi piatti, a destra e a sinistra. Non ci sono altri canali, c'è solo il documentario.
Ti parla di una natura in cui i prati e i cavalcavia si sono fusi in un grigio senza sfumature, in cui il tronco spoglio è divenuto lampione come i lampioni attorno a lui. Il sole non è che una macchia più chiara nella tovaglia grigia della nebbia. Il grande corpo luminoso un tempo trainato da un Dio si è ridotto a un misero alone che non va via in lavatrice. Non c'è nulla di fiero in quel fosco grigiolino che sa un poco di arancione. Il sole è una macchia d'unto che rovina il grigio che più grigio non si può del tessuto di nebbia profumata di polvere e vapore.
La programmazione invernale va in onda in montagna come in pianura. Ciò che in città sono banchi di nebbia, sugli appennini sono nuvole basse e non c'è modo di sfuggire al documentario senza colori, dove il bianco e il nero si sono fusi in una sbiadita via di mezzo tra i due.
La strada comincia a salire e ci sono i calanchi e qualche laghetto a mimetizzarsi nell'argento bagnato dell'aria. Affrontando i primi tornanti ti chiedi dove sia il punto in cui la nebbia si trasforma in nuvole, cercando una linea di confine tra grigio e grigio. Niente, non ci sono stacchi. Non c'è una zona franca senza nebbia né nuvole. Anzi, c'è una zona particolarmente sfortunata in cui si sovrappongono nebbia e nuvole. E dentro a quel budino umido e freddo c'è qualche cane senza più un Dio, c'è qualche contadino che maledice il suo cane e le bestemmie si perdono dense nel silenzio del grigio che più grigio non si può.
Serramazzoni si nascondeva in questa linea spessa di umidità sovrapposte. Era il mese di marzo. Ci sono posti in cui marzo è il gambo in cui germoglia il fiore della primavera. La primavera è lì, la vedi ad occhio nudo. A Serramazzoni marzo è il cuore dell'inverno e la primavera non la vedi nemmeno nei film perchè a Serramazzoni l'antenna non prende. Se ti va bene becchi Montalbano il lunedì sera.
Serramazzoni è uguale agli altri paesi dell'appennino. E' piccola e fredda. Non ci sono giovani, ma solo vecchi che parlano di altri vecchi che sono morti. Poi c'è una biblioteca di cui nessuno conosce l'esistenza. Ecco, lavorare in una biblioteca così, sul confine nebbia-nuvole è un'esperienza mistica in cui impari a riconoscere i diversi silenzi che si alternano durante il giorno.
Erano i primi di marzo e Robby se ne stava immerso nel silenzio vuoto della biblioteca, a sua volta immersa nel silenzio vuoto della montagna. Era il silenzio di tipo tre, quello in cui il vento fa scricchiolare le imposte.
Robby segnava le visite su un quaderno. Quel giorno era ancora fermo a zero. Segnò se stesso per arrivare a uno. Poi guardò le pagine dei giorni precedenti e fece un punto esclamativo di fianco al lunedì, dove le presenze avevano toccato quota dieci. Controllò il mese di febbraio e trovò un giorno con quattordici presenze. Due punti esclamativi.
Robby era l'ultima persona che ti saresti aspettato di trovare in una biblioteca. Era magro, giovane, con due occhi scuri e profondi. Aveva trent'anni, ma i capelli bianchi gli variegavano la chioma a caschetto, un caschetto improbabile, che un caschetto così lo si porta solo in terza o quarta elementare.
Da un giorno all'altro Robby si era ritrovato a dover fare i conti coi capelli bianchi. Non solo quelli che aveva in testa, ma quelli che caratterizzavano Serramazzoni stessa. Robby era l'unico capello buono in mezzo a settemila anime bianche. Serramazzoni è fatta di vecchi, che come capelli sottili si muovono leggeri dal paese al cimitero, senza nemmeno proiettare l'ombra, come mossi dal vento.
Robby conosceva a memoria i capelli bianchi, conosceva a memoria quei pochi che entravano in biblioteca, quelle quattro o cinque presenze giornaliere che venivano a cercare un libro giusto per fare tappa di ritorno dal bocciodromo.
Ogni volta che sentiva entrare qualcuno coltivava il sogno che potesse trattarsi di un giovane, o magari di una ragazza, di un lungo capello castano, pieno di vita e brillantezza. Uno di quelli delle pubblicità, che ci puoi fare il nodo e tuffarci la mano per coccolarti le dita. Invece no: era il solito capello bianco sottile, di quelli senza ombra, che si aggirava un po' per gli scaffali, sfogliava qualche pagina a caso di un classico e poi ripiegava su Camilleri, perché non si è perso una puntata di Montalbano in televisione. Oppure arrivava quella dal capello riccio e grigio, montato con la lacca per starsene su, che si butta sulla Modigliani o Danielle Steel, che vuole leggere di sentimenti, quei sentimenti che non scorrono sulla pagina ruvida e spessa, ma sulla carta plastificata e liscia delle riviste per signore.
Quando era da solo, Robby tirava fuori i libri più vecchi, le edizioni anni '60 di Kafka o Dostoevskij e accarezzava le pagine dure e spesse che c'erano una volta; ne annusava l'odore ruvido e le grattava un po' con l'unghia, cosa che gli procurava un brivido lungo la schiena. Andava un po' avanti così, fino a graffiare interi capitoli.
Robby voleva fare il fotografo. Ognuno scorge un'ombra d'arte nascosta dietro il paravento del suo lavoro e Robby osservava la fotografia sopra ogni scaffale, accanto alle imposte e nella polvere. Robby sognava di vivere fotografando il mondo, ma conservava la digitale chiusa in un cassetto.
Erano i primi di marzo e quel giorno era ancora più vuoto degli altri. Robby segnò sé stesso nel registro delle presenze per arrivare a uno, poi ebbe un'intuizione e aprì il cassetto. Lavorava a Serramazzoni da due mesi, ma non aveva ancora toccato la macchina fotografica, preferendo passare il tempo a grattare le pagine dure di Kafka.
Quel giorno però era inquieto, agitato. Aveva passeggiato avanti e indietro nella piccola biblioteca e si era soffermato più volte davanti alle vetrate. Dietro all'edificio si apriva una grande vallata, che correva per il pendio, rotolando il verde smeraldo dei prati dentro i nodi nella nebbia. Più in là la pianura, che nelle notti d'estate era tante lucine, come lo specchio dove si raddoppiavano le stelle.
Robby guardò fuori e decise di fare qualche foto. Fotografò la nebbia e in quella prima foto si poteva a malapena scorgere il grande abete che se ne stava a venti metri di distanza. Nebbia, abete e poco più.
Quello stesso giorno immortalò un altro scatto dalla finestra opposta, cogliendo l'arancione della sera assorbito nei ciuffi delle nuvole, che come fili di cotone premuti negli acquerelli si erano impregnate del tramonto.
Il mattino dopo si alzò presto, prestissimo. Aprì la biblioteca a un orario irreale e colse l'alba dalla finestra sulla vallata. Era un mattino terso e gelido; c'era solo un po' di foschia che aleggiava sullo smeraldo e il sole aveva le tinte fredde del ghiaccio.
A mezzogiorno il cielo era coperto e Robby riuscì a cogliere il bosco sul versante a destra, con tutti gli alberi che fischiavano un temporale.
Vennero tre capelli bianchi in biblioteca quel pomeriggio, ma Robby non se ne curò, aspettando trepidante gli scrosci d'acqua più intensi. Catturò un lampo, fotografò le gocce sul vetro e la natura mossa dalla tempesta.
Fece foto per altri due giorni, durante i quali registrò il prestito di sei sentimentali e quattro polizieschi.
Il 21 marzo non fu solo il primo giorno di primavera, ma anche il mio primo giorno di lavoro nella biblioteca di Serramazzoni. Faceva freddo, ma l'aria era un vetro pulito e duro, attraverso cui la natura lanciava un verde profondo e penetrante.
Avevo mandato curriculum ovunque e mi dissero che si era liberato un posto da bibliotecario a Serramazzoni. Colsi l'occasione al volo e mi andai a stabilire nella casa dei miei nonni che abitavano proprio là.
Il 21 marzo in biblioteca non entrò nessuno. Segnai me stesso sul registro delle presenze per arrivare a uno. Avevo già lavorato in biblioteca a Modena, perciò non c'era nessuno a spiegarmi il lavoro quel primo giorno. Ero solo e imparai in un lampo il significato della solitudine in montagna.
Sfogliai il registro per capire quale fosse l'affluenza media.
Quattro crocette, cinque crocette, una crocetta. Andando indietro trovai un lunedì con dieci presenze e un punto esclamativo di fianco. Nel mese di febbraio vi fu addirittura un giorno con quattordici presenze e due punti esclamativi.
La persona che occupava quel posto prima di me doveva sentirsi molto sola. Con quei punti esclamativi era come se mi avesse comunicato tutto ciò che c'era da sapere su quel lavoro: “Mio caro, sappi che quando entrano dieci persone è un grande risultato, quindi preparati a passare molto tempo con te stesso e con i tuoi pensieri”.
Controllai la cartella dei dipendenti e scoprii che si chiamava Roberto Vaccari. Chi era questo Roberto Vaccari? Cominciai a cercare notizie su di lui, per scoprire che tipo fosse e perchè avesse abbandonato il lavoro all'improvviso.
Ma quel primo giorno di primavera non c'era nessuno che potesse rispondere alle mie domande e sui registri non trovai alcuna informazione utile, a parte il suo nome e i suoi punti esclamativi.
Mi alzai e cominciai a girare per gli scaffali. I volumi erano tutti al loro posto. Il giro di una biblioteca lo si intuisce anche dai buchi che si trovano tra i libri. Nessun buco da Edgar Allan Poe. Evidentemente Serramazzoni non comprendeva lettori interessati agli horror. Nessun buco da nessuna parte. Praticamente non c'erano libri in prestito. Gli unici spazi vuoti li trovai dalla Casati Modigliani e da Camilleri. Evidentemente le ultime persone a cui Robby registrò dei prestiti furono una casalinga che consuma telenovelas e un pensionato che non perde un Montalbano.
Estrassi qualche volume di Marquez e Kafka per controllarne lo stato. Kafka era distrutto. Ogni pagina appariva ormai illeggibile. Vi erano graffi dappertutto: la carta era stata lacerata e corrosa, vittima di un'azione spietata e incomprensibile. Immaginai che il responsabile fosse Robby. Mi configurai un signore anziano, curvo. Un bibliotecario piegato dagli anni e dalla noia, con le unghie dure e nere. Un vecchietto mezzo pazzo, messo lì dal comune per trovargli qualcosa da fare. Poi però pensai ai punti esclamativi e non riuscii a collegarli all'immagine di un vecchio disadattato.
Mi alzai ancora una volta e mi soffermai davanti alle grandi vetrate, l'unica vera attrazione di quel buco polveroso. Guardai l'immensa vallata che si apriva silenziosa verso la primavera, scorgendo nelle margherite sotto un grande abete il primo sussurro di una stagione lontana.
Poi mi voltai e scorsi sugli scaffali una sezione che mi era ancora sfuggita. In fondo a una mensola, dopo la zona dei gialli e quella della fantascienza, c'era un settore molto piccolo, il cui nome appariva scritto a mano su un foglietto attaccato allo scaffale. Si chiamava “fuori”. Era evidente che la scrittura dovesse essere quella di Robby. La sezione “fuori” non comprendeva libri, ma soltanto alcune fotografie, una ventina in tutto, accostate in verticale una all'altra, come tanti volumi monopagina.
Erano le foto dei paesaggi che si vedevano dalle vetrate. Tramonti, albe, nebbie, piogge, prati. Era il mondo fuori dalla biblioteca, un mondo che Robby aveva fotografato nell'arco temporale di tre giorni. Dietro ogni fotografia c'erano la data e un codice, un codice di sei cifre simile a quello che c'era sui libri, un codice che serviva a registrare i prestiti. Evidentemente Robby aveva avuto un'intuizione improvvisa. Aveva deciso che oltre ai libri si potevano dare in prestito anche le fotografie. Se i vecchi di Serramazzoni non apprezzavano la grande letteratura che marciva e si impolverava sugli scaffali, avrebbero invece apprezzato ciò che di più bello quei monti regalavano all'uomo. Tutto il mondo fuori, tutta la natura che nessun libro potrà mai raccontare. La pioggia, la nebbia, il tramonto e l'abete. Perchè la programmazione invernale emiliana può essere molto severa. Proietta un documentario crudele, aspro, sempre uguale. La solitudine, metaforicamente espressa con grande poesia dalla nebbia, che isola l'uomo da tutto ciò che ha intorno, può fare molta paura. Ma Robby aveva trovato un modo per evadere dalla solitudine. Aveva scoperto che non bisogna guardare dentro alle cose, ma fuori. Bisogna guardare la nebbia e ciò che essa nasconde, bisogna guardare fuori, perchè dentro c'è solo una solitudine infinita.
Mentre registravo sul computer i codici delle fotografie per renderle a tutti gli effetti prestabili a chiunque, buttavo l'occhio sull'ultima di esse, quasi ipnotizzato. Era diversa dalle altre. Non era un paesaggio, ma l'autoscatto di Robby, che mi aveva regalato il suo volto, il suo sguardo. Non era come l'avevo immaginato. Era giovane, aveva trent'anni, ma i capelli bianchi macchiavano in più punti quel caschetto da terza o quarta elementare. Guardava l'obiettivo con espressione neutra, con gli occhi scuri e penetranti che esprimevano una consapevolezza fuori dal comune.
Dietro non aveva scritto alcun codice per il prestito, ma due date, distanti soltanto trent'anni l'una dall'altra.
ALFONSO LENTINI
Alfonso Lentini, nato in Sicilia nel 1951, vive a Belluno dove opera nel campo della scrittura, delle arti visive e della ricerca verbo-visuale. Fra i suoi libri: L’arrivo dello spirito (con Carola Susani, Perap, 1991), il romanzo-saggio La chiave dell’incanto (postafazione di Alessandro Fo, Pungitopo, Messina 1997), il testo poetico Mio minimo oceano di croci (Anterem, Verona 2000, opera finalista alla IX edizione del premio Montano), Piccolo inventario degli specchi (prefazione di Antonio Castronuovo, Stampa Alternativa, Viterbo 2003), i romanzi Un bellunese di Patagonia (Stampa Alternativa, 2004) e Cento madri (vincitore del premio Città di Forlì”, con postfazione di Paolo Ruffilli, Foschi, Forlì 2009). Al libro Piccolo inventario degli specchi alcuni artisti del Centro Verifica 8+1 di Venezia Mestre hanno dedicato la mostra “Concrescenze speculari”. Suoi testi critici o creativi sono pubblicati in riviste e nel web.Ha realizzato libri d’artista in edizione autoprodotta, con altri autori o con editori come “Pulcinoelefante”.
Nelle sue numerose mostre e installazioni tenute in Italia e all’estero propone opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale. Ha realizzato "poesie oggettuali", cioè opere materiche basate su procedimenti di solidificazione e assemblaggio di libri, parole e frammenti della quotidianità. La sua ricerca sull'oggettualizzazione della parola si è inoltre concretizzata in piccoli lavori su carta (in struttura modulare e in forma di "pagine") denominati Insulae, in installazioni dove l’elemento dominante è l’acqua e più recentemente in “scatole alchemiche” chiamate “Approssimazioni di albedo” (presentate in una personale a Venezia presso il “Françoise Calcagno Art Studio”). alea.len.gri@libero.it
Racconto inedito
Iride
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I
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Il cellulare trilla che sembra la sua risata.
"Ciao, indovina dove sono? Sono a Venezia, in aeroporto."
"Ma non eri a Parigi?"
"Veramente ero a Praga, carino. Ma ho preso un volo al volo. Vieni a prendermi?". La sua voce si impenna ancora di più verso l'alto: "Ti ho portato un regalo". Gaspare la immagina con una gonna gialla lunga sino ai piedi, come quella che indossava l'ultima volta che l'ha vista, di tela indiana, sotto la pioggia. E una nuvola nel sorriso.
"Ti ho portato un regalo".
Mentre Gaspare, muso di lupo, guida verso l'aeroporto con le mani dure sul volante e l'autostrada scorre a precipizio davanti a lui, pensa a che regalo gli avrà mai portato, la signorina.
Ma il regalo più grande è lei, Iride, che illumina ora la scena col suo minivestito (quanto diverso dalla gonna gialla!), tacchi alti di plasticone, il trolley fluorescente bene in vista e fa ciao con tutte e cinque le dita. Lo bacia stampandogli un sorriso rossissimo sulla guancia. Gaspare accusa il colpo e butta la valigia della ragazza dentro il portabagagli. Ma già guarda come lei prende posto sul sedile inondando la macchina di un suo profumo di limoncello acerbo e come con un gesto svelto ricaccia indietro una ciocca di capelli.
"Ti ho portato un regalo".
"L'hai comprato a Praga?"
"Non proprio comprato, carino. L'ho rubato".
Appena la Nissan è in moto, la ragazza armeggia intorno al cruscotto, infila un CD e spara musica messicana a volume da tirannosauro. Poi si toglie le scarpe di plasticone, abbassa lo schienale, tira giù il vetro e sporge fuori i piedi agitando l'alluce a ritmo di samba.
"Iride!"
"Abbasso il volume?"
"Iride!"
"Sì ho capito, vabbè, devo tirare dentro i piedi. Però che ci sarebbe di male?"
Chissà che regalo mi ha portato, pensa Gaspare. Intanto ai bordi dell'asfalto i primi lampioni alogeni inzuppano di giallo l'imbrunire. Plana una sera resinosa.
.
II
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Avviene in una luce più parlata. Fioccano allegorie di triangoli.
Ai bordi dell'asfalto si sfilacciano luminescenze, le città diventano placide balene viola; è sera, l’aere si fa mansueta.
Gaspare, muso di lupo, tiene le mani dure sul volante. Capita che ti sorprenda un desiderio improvviso. Allegoria dell’ombra.
Iride intanto scocca sguardi mansueti verso le balene viola. Ha un viso volatile, come di pavoncella. Ma ha labbra concrete, fondanti.
Il muso di lupo di Gaspare è invece astratto, una sommatoria di inferenze. Se parla, le sue u sono puntute, affilatissime, dunque quasi invisibili. Con tutte quelle u con cui lui scheggia il suo discorso, la ragazza non è riuscita a seguirlo, a inseguirlo. La coda delle parole ogni tanto si perde. Si perde il mare del pensare, la fragile grammatica dell’acqua, coi suoi tremila occhi.
È sera, scorrono lente verità. Gaspare sta soffrendo, pare. Ha un suo tarlo, un melanoma dell’anima.
“Ah,” sonnecchia Iride.
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III
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Ma ora, mentre planano allegorie del mare, lo ascolta, o almeno vorrebbe.
"A Praga per esempio", continua Gaspare. "A Praga ho visto coi miei occhi e dunque devi credermi".
Se bastasse vedere per credere, pensa Iride. Io vengo proprio da là. Ho visto, non ho creduto.
Poi si volta di scatto verso Gaspare, sconquassando la penombra.
"Sai, carino? Te lo dico io cosa ho visto a Praga. A Praga ho visto un colore".
"Un colore?"
"Sì, un colore che chiamerei Verde Kafka: è un verde non verde, del verde conserva una lontana memoria, appare come un’incrostazione scura e sterrosa che ricopre l’intonaco di certi caseggiati in riva alla Moldava. Capisci, carino? Non è un verde, del verde non ha neppure l'apparenza, eppure... Eppure è lo stesso verde che trovi nelle pagine di Kafka, è quel colore incolore che ti viene incontro quando..."
"Che regalo mi hai portato?"
"Che regalo ho rubato per te, devi dire…".
"Vabbé. Cosa hai rubato a Praga?"
"Ma chi ha detto che l'ho rubato a Praga?"
"Dove allora?"
"A Monaco, carino. Prima di Praga sono stata a Monaco. Sai, là c'è un museo gigantesco, una cosa enorme. Scienza, tecnica… Deutsches Museum… roba così.
Mille sezioni. Le miniere antiche ricostruite nel sottosuolo. La gabbia di Faraday. Treni. Navi. Strumenti musicali d'ogni genere. Una sezione persino di giocattoli, tutti i giocattoli del mondo, di qualsiasi epoca e nazione, tutti in fila, trenini, bambole, passerotti di latta, soldatini, tutti nelle loro teche di vetro. Immobili. Fanno quasi paura."
"Hai rubato un giocattolo per me?"
"No, aspetta. Ci sono altre sezioni, in quel museo. È il Museo della Scienza e della Tecnica, uno dei più importanti del mondo, carino. Una sala è dedicata, sai a cosa? Al volo. Macchine volanti squadernate a volontà. Si parte dalle mongolfiere e non si finisce più. Era l’ora di chiusura e a un certo punto mi sono accorta che ero rimasta sola in mezzo a quei saloni cosi estesi che possono contenere, pensa, aerei e aerei a centinaia. …Che se ne stanno tutti là, in fila, tutti buoni buonini come uccelli imbalsamati. Ero rimasta solo io, non c'era più nessuno in quei saloni popolati di aerei fantasma. C'ero io e questa sterminata folla di congegni alati. E un silenzio arrapante. Ecco, ti ho portato questo".
Gaspare vede le dita di Iride che armeggiano dentro il buio di una borsetta. Dal buio sbuca un pacchetto bianco avvolto in un filo leggero.
"Bianco fuori e bianco dentro".
Gaspare scioglie il fiocco.
Le labbra di Iride restano socchiuse in attesa.
Il pacco contiene una tela ruvida, bianca ma offesa dal tempo e dalla polvere.
"Bianco Kafka?"
"È un pezzo d'ala, scemo. Un frammento. L'ho strappato al volo".
"Che ala?"
"Eh, questo non te lo dico! Appartiene a un'ala speciale. Prova a immaginare"
Planano lente verità, dentro l'abitacolo della Nissan.
Avviene in una luce più laccata. La macchina ora è immobile, in una piazzola di sosta, incartata in un'ombra lattescente.
Le labbra di Iride hanno il sapore delle arance brasiliane. Il suo minivestito è scomparso.
Il cielo, anche se forse è ancora notte, risplende di blu Klein.
Emilia, programmazione invernale
L'Emilia proietta un documentario.
Sempre quello, sempre lo stesso documentario.
E' come quei film alla “Mamma ho perso l'aereo” o “Una poltrona per due”, che li mandano tutti gli anni poco prima di Natale.
Ecco, è la stessa cosa. Tutti gli inverni l'Emilia proietta quell'unico documentario che conosciamo tutti a memoria.
Va in onda al mattino e alla sera, su finestre e finestrini. Non serve alcuna antenna parabolica, basta aprire le tende. E' sufficiente anche un piccolo lucernaio da dieci pollici. Oppure ti metti in viaggio e guardi fuori. I treni, per esempio, sono muniti di centinaia di schermi piatti, a destra e a sinistra. Non ci sono altri canali, c'è solo il documentario.
Ti parla di una natura in cui i prati e i cavalcavia si sono fusi in un grigio senza sfumature, in cui il tronco spoglio è divenuto lampione come i lampioni attorno a lui. Il sole non è che una macchia più chiara nella tovaglia grigia della nebbia. Il grande corpo luminoso un tempo trainato da un Dio si è ridotto a un misero alone che non va via in lavatrice. Non c'è nulla di fiero in quel fosco grigiolino che sa un poco di arancione. Il sole è una macchia d'unto che rovina il grigio che più grigio non si può del tessuto di nebbia profumata di polvere e vapore.
La programmazione invernale va in onda in montagna come in pianura. Ciò che in città sono banchi di nebbia, sugli appennini sono nuvole basse e non c'è modo di sfuggire al documentario senza colori, dove il bianco e il nero si sono fusi in una sbiadita via di mezzo tra i due.
La strada comincia a salire e ci sono i calanchi e qualche laghetto a mimetizzarsi nell'argento bagnato dell'aria. Affrontando i primi tornanti ti chiedi dove sia il punto in cui la nebbia si trasforma in nuvole, cercando una linea di confine tra grigio e grigio. Niente, non ci sono stacchi. Non c'è una zona franca senza nebbia né nuvole. Anzi, c'è una zona particolarmente sfortunata in cui si sovrappongono nebbia e nuvole. E dentro a quel budino umido e freddo c'è qualche cane senza più un Dio, c'è qualche contadino che maledice il suo cane e le bestemmie si perdono dense nel silenzio del grigio che più grigio non si può.
Serramazzoni si nascondeva in questa linea spessa di umidità sovrapposte. Era il mese di marzo. Ci sono posti in cui marzo è il gambo in cui germoglia il fiore della primavera. La primavera è lì, la vedi ad occhio nudo. A Serramazzoni marzo è il cuore dell'inverno e la primavera non la vedi nemmeno nei film perchè a Serramazzoni l'antenna non prende. Se ti va bene becchi Montalbano il lunedì sera.
Serramazzoni è uguale agli altri paesi dell'appennino. E' piccola e fredda. Non ci sono giovani, ma solo vecchi che parlano di altri vecchi che sono morti. Poi c'è una biblioteca di cui nessuno conosce l'esistenza. Ecco, lavorare in una biblioteca così, sul confine nebbia-nuvole è un'esperienza mistica in cui impari a riconoscere i diversi silenzi che si alternano durante il giorno.
Erano i primi di marzo e Robby se ne stava immerso nel silenzio vuoto della biblioteca, a sua volta immersa nel silenzio vuoto della montagna. Era il silenzio di tipo tre, quello in cui il vento fa scricchiolare le imposte.
Robby segnava le visite su un quaderno. Quel giorno era ancora fermo a zero. Segnò se stesso per arrivare a uno. Poi guardò le pagine dei giorni precedenti e fece un punto esclamativo di fianco al lunedì, dove le presenze avevano toccato quota dieci. Controllò il mese di febbraio e trovò un giorno con quattordici presenze. Due punti esclamativi.
Robby era l'ultima persona che ti saresti aspettato di trovare in una biblioteca. Era magro, giovane, con due occhi scuri e profondi. Aveva trent'anni, ma i capelli bianchi gli variegavano la chioma a caschetto, un caschetto improbabile, che un caschetto così lo si porta solo in terza o quarta elementare.
Da un giorno all'altro Robby si era ritrovato a dover fare i conti coi capelli bianchi. Non solo quelli che aveva in testa, ma quelli che caratterizzavano Serramazzoni stessa. Robby era l'unico capello buono in mezzo a settemila anime bianche. Serramazzoni è fatta di vecchi, che come capelli sottili si muovono leggeri dal paese al cimitero, senza nemmeno proiettare l'ombra, come mossi dal vento.
Robby conosceva a memoria i capelli bianchi, conosceva a memoria quei pochi che entravano in biblioteca, quelle quattro o cinque presenze giornaliere che venivano a cercare un libro giusto per fare tappa di ritorno dal bocciodromo.
Ogni volta che sentiva entrare qualcuno coltivava il sogno che potesse trattarsi di un giovane, o magari di una ragazza, di un lungo capello castano, pieno di vita e brillantezza. Uno di quelli delle pubblicità, che ci puoi fare il nodo e tuffarci la mano per coccolarti le dita. Invece no: era il solito capello bianco sottile, di quelli senza ombra, che si aggirava un po' per gli scaffali, sfogliava qualche pagina a caso di un classico e poi ripiegava su Camilleri, perché non si è perso una puntata di Montalbano in televisione. Oppure arrivava quella dal capello riccio e grigio, montato con la lacca per starsene su, che si butta sulla Modigliani o Danielle Steel, che vuole leggere di sentimenti, quei sentimenti che non scorrono sulla pagina ruvida e spessa, ma sulla carta plastificata e liscia delle riviste per signore.
Quando era da solo, Robby tirava fuori i libri più vecchi, le edizioni anni '60 di Kafka o Dostoevskij e accarezzava le pagine dure e spesse che c'erano una volta; ne annusava l'odore ruvido e le grattava un po' con l'unghia, cosa che gli procurava un brivido lungo la schiena. Andava un po' avanti così, fino a graffiare interi capitoli.
Robby voleva fare il fotografo. Ognuno scorge un'ombra d'arte nascosta dietro il paravento del suo lavoro e Robby osservava la fotografia sopra ogni scaffale, accanto alle imposte e nella polvere. Robby sognava di vivere fotografando il mondo, ma conservava la digitale chiusa in un cassetto.
Erano i primi di marzo e quel giorno era ancora più vuoto degli altri. Robby segnò sé stesso nel registro delle presenze per arrivare a uno, poi ebbe un'intuizione e aprì il cassetto. Lavorava a Serramazzoni da due mesi, ma non aveva ancora toccato la macchina fotografica, preferendo passare il tempo a grattare le pagine dure di Kafka.
Quel giorno però era inquieto, agitato. Aveva passeggiato avanti e indietro nella piccola biblioteca e si era soffermato più volte davanti alle vetrate. Dietro all'edificio si apriva una grande vallata, che correva per il pendio, rotolando il verde smeraldo dei prati dentro i nodi nella nebbia. Più in là la pianura, che nelle notti d'estate era tante lucine, come lo specchio dove si raddoppiavano le stelle.
Robby guardò fuori e decise di fare qualche foto. Fotografò la nebbia e in quella prima foto si poteva a malapena scorgere il grande abete che se ne stava a venti metri di distanza. Nebbia, abete e poco più.
Quello stesso giorno immortalò un altro scatto dalla finestra opposta, cogliendo l'arancione della sera assorbito nei ciuffi delle nuvole, che come fili di cotone premuti negli acquerelli si erano impregnate del tramonto.
Il mattino dopo si alzò presto, prestissimo. Aprì la biblioteca a un orario irreale e colse l'alba dalla finestra sulla vallata. Era un mattino terso e gelido; c'era solo un po' di foschia che aleggiava sullo smeraldo e il sole aveva le tinte fredde del ghiaccio.
A mezzogiorno il cielo era coperto e Robby riuscì a cogliere il bosco sul versante a destra, con tutti gli alberi che fischiavano un temporale.
Vennero tre capelli bianchi in biblioteca quel pomeriggio, ma Robby non se ne curò, aspettando trepidante gli scrosci d'acqua più intensi. Catturò un lampo, fotografò le gocce sul vetro e la natura mossa dalla tempesta.
Fece foto per altri due giorni, durante i quali registrò il prestito di sei sentimentali e quattro polizieschi.
Il 21 marzo non fu solo il primo giorno di primavera, ma anche il mio primo giorno di lavoro nella biblioteca di Serramazzoni. Faceva freddo, ma l'aria era un vetro pulito e duro, attraverso cui la natura lanciava un verde profondo e penetrante.
Avevo mandato curriculum ovunque e mi dissero che si era liberato un posto da bibliotecario a Serramazzoni. Colsi l'occasione al volo e mi andai a stabilire nella casa dei miei nonni che abitavano proprio là.
Il 21 marzo in biblioteca non entrò nessuno. Segnai me stesso sul registro delle presenze per arrivare a uno. Avevo già lavorato in biblioteca a Modena, perciò non c'era nessuno a spiegarmi il lavoro quel primo giorno. Ero solo e imparai in un lampo il significato della solitudine in montagna.
Sfogliai il registro per capire quale fosse l'affluenza media.
Quattro crocette, cinque crocette, una crocetta. Andando indietro trovai un lunedì con dieci presenze e un punto esclamativo di fianco. Nel mese di febbraio vi fu addirittura un giorno con quattordici presenze e due punti esclamativi.
La persona che occupava quel posto prima di me doveva sentirsi molto sola. Con quei punti esclamativi era come se mi avesse comunicato tutto ciò che c'era da sapere su quel lavoro: “Mio caro, sappi che quando entrano dieci persone è un grande risultato, quindi preparati a passare molto tempo con te stesso e con i tuoi pensieri”.
Controllai la cartella dei dipendenti e scoprii che si chiamava Roberto Vaccari. Chi era questo Roberto Vaccari? Cominciai a cercare notizie su di lui, per scoprire che tipo fosse e perchè avesse abbandonato il lavoro all'improvviso.
Ma quel primo giorno di primavera non c'era nessuno che potesse rispondere alle mie domande e sui registri non trovai alcuna informazione utile, a parte il suo nome e i suoi punti esclamativi.
Mi alzai e cominciai a girare per gli scaffali. I volumi erano tutti al loro posto. Il giro di una biblioteca lo si intuisce anche dai buchi che si trovano tra i libri. Nessun buco da Edgar Allan Poe. Evidentemente Serramazzoni non comprendeva lettori interessati agli horror. Nessun buco da nessuna parte. Praticamente non c'erano libri in prestito. Gli unici spazi vuoti li trovai dalla Casati Modigliani e da Camilleri. Evidentemente le ultime persone a cui Robby registrò dei prestiti furono una casalinga che consuma telenovelas e un pensionato che non perde un Montalbano.
Estrassi qualche volume di Marquez e Kafka per controllarne lo stato. Kafka era distrutto. Ogni pagina appariva ormai illeggibile. Vi erano graffi dappertutto: la carta era stata lacerata e corrosa, vittima di un'azione spietata e incomprensibile. Immaginai che il responsabile fosse Robby. Mi configurai un signore anziano, curvo. Un bibliotecario piegato dagli anni e dalla noia, con le unghie dure e nere. Un vecchietto mezzo pazzo, messo lì dal comune per trovargli qualcosa da fare. Poi però pensai ai punti esclamativi e non riuscii a collegarli all'immagine di un vecchio disadattato.
Mi alzai ancora una volta e mi soffermai davanti alle grandi vetrate, l'unica vera attrazione di quel buco polveroso. Guardai l'immensa vallata che si apriva silenziosa verso la primavera, scorgendo nelle margherite sotto un grande abete il primo sussurro di una stagione lontana.
Poi mi voltai e scorsi sugli scaffali una sezione che mi era ancora sfuggita. In fondo a una mensola, dopo la zona dei gialli e quella della fantascienza, c'era un settore molto piccolo, il cui nome appariva scritto a mano su un foglietto attaccato allo scaffale. Si chiamava “fuori”. Era evidente che la scrittura dovesse essere quella di Robby. La sezione “fuori” non comprendeva libri, ma soltanto alcune fotografie, una ventina in tutto, accostate in verticale una all'altra, come tanti volumi monopagina.
Erano le foto dei paesaggi che si vedevano dalle vetrate. Tramonti, albe, nebbie, piogge, prati. Era il mondo fuori dalla biblioteca, un mondo che Robby aveva fotografato nell'arco temporale di tre giorni. Dietro ogni fotografia c'erano la data e un codice, un codice di sei cifre simile a quello che c'era sui libri, un codice che serviva a registrare i prestiti. Evidentemente Robby aveva avuto un'intuizione improvvisa. Aveva deciso che oltre ai libri si potevano dare in prestito anche le fotografie. Se i vecchi di Serramazzoni non apprezzavano la grande letteratura che marciva e si impolverava sugli scaffali, avrebbero invece apprezzato ciò che di più bello quei monti regalavano all'uomo. Tutto il mondo fuori, tutta la natura che nessun libro potrà mai raccontare. La pioggia, la nebbia, il tramonto e l'abete. Perchè la programmazione invernale emiliana può essere molto severa. Proietta un documentario crudele, aspro, sempre uguale. La solitudine, metaforicamente espressa con grande poesia dalla nebbia, che isola l'uomo da tutto ciò che ha intorno, può fare molta paura. Ma Robby aveva trovato un modo per evadere dalla solitudine. Aveva scoperto che non bisogna guardare dentro alle cose, ma fuori. Bisogna guardare la nebbia e ciò che essa nasconde, bisogna guardare fuori, perchè dentro c'è solo una solitudine infinita.
Mentre registravo sul computer i codici delle fotografie per renderle a tutti gli effetti prestabili a chiunque, buttavo l'occhio sull'ultima di esse, quasi ipnotizzato. Era diversa dalle altre. Non era un paesaggio, ma l'autoscatto di Robby, che mi aveva regalato il suo volto, il suo sguardo. Non era come l'avevo immaginato. Era giovane, aveva trent'anni, ma i capelli bianchi macchiavano in più punti quel caschetto da terza o quarta elementare. Guardava l'obiettivo con espressione neutra, con gli occhi scuri e penetranti che esprimevano una consapevolezza fuori dal comune.
Dietro non aveva scritto alcun codice per il prestito, ma due date, distanti soltanto trent'anni l'una dall'altra.
ALFONSO LENTINI
Alfonso Lentini, nato in Sicilia nel 1951, vive a Belluno dove opera nel campo della scrittura, delle arti visive e della ricerca verbo-visuale. Fra i suoi libri: L’arrivo dello spirito (con Carola Susani, Perap, 1991), il romanzo-saggio La chiave dell’incanto (postafazione di Alessandro Fo, Pungitopo, Messina 1997), il testo poetico Mio minimo oceano di croci (Anterem, Verona 2000, opera finalista alla IX edizione del premio Montano), Piccolo inventario degli specchi (prefazione di Antonio Castronuovo, Stampa Alternativa, Viterbo 2003), i romanzi Un bellunese di Patagonia (Stampa Alternativa, 2004) e Cento madri (vincitore del premio Città di Forlì”, con postfazione di Paolo Ruffilli, Foschi, Forlì 2009). Al libro Piccolo inventario degli specchi alcuni artisti del Centro Verifica 8+1 di Venezia Mestre hanno dedicato la mostra “Concrescenze speculari”. Suoi testi critici o creativi sono pubblicati in riviste e nel web.Ha realizzato libri d’artista in edizione autoprodotta, con altri autori o con editori come “Pulcinoelefante”.
Nelle sue numerose mostre e installazioni tenute in Italia e all’estero propone opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale. Ha realizzato "poesie oggettuali", cioè opere materiche basate su procedimenti di solidificazione e assemblaggio di libri, parole e frammenti della quotidianità. La sua ricerca sull'oggettualizzazione della parola si è inoltre concretizzata in piccoli lavori su carta (in struttura modulare e in forma di "pagine") denominati Insulae, in installazioni dove l’elemento dominante è l’acqua e più recentemente in “scatole alchemiche” chiamate “Approssimazioni di albedo” (presentate in una personale a Venezia presso il “Françoise Calcagno Art Studio”). alea.len.gri@libero.it
Racconto inedito
Iride
.
I
.
Il cellulare trilla che sembra la sua risata.
"Ciao, indovina dove sono? Sono a Venezia, in aeroporto."
"Ma non eri a Parigi?"
"Veramente ero a Praga, carino. Ma ho preso un volo al volo. Vieni a prendermi?". La sua voce si impenna ancora di più verso l'alto: "Ti ho portato un regalo". Gaspare la immagina con una gonna gialla lunga sino ai piedi, come quella che indossava l'ultima volta che l'ha vista, di tela indiana, sotto la pioggia. E una nuvola nel sorriso.
"Ti ho portato un regalo".
Mentre Gaspare, muso di lupo, guida verso l'aeroporto con le mani dure sul volante e l'autostrada scorre a precipizio davanti a lui, pensa a che regalo gli avrà mai portato, la signorina.
Ma il regalo più grande è lei, Iride, che illumina ora la scena col suo minivestito (quanto diverso dalla gonna gialla!), tacchi alti di plasticone, il trolley fluorescente bene in vista e fa ciao con tutte e cinque le dita. Lo bacia stampandogli un sorriso rossissimo sulla guancia. Gaspare accusa il colpo e butta la valigia della ragazza dentro il portabagagli. Ma già guarda come lei prende posto sul sedile inondando la macchina di un suo profumo di limoncello acerbo e come con un gesto svelto ricaccia indietro una ciocca di capelli.
"Ti ho portato un regalo".
"L'hai comprato a Praga?"
"Non proprio comprato, carino. L'ho rubato".
Appena la Nissan è in moto, la ragazza armeggia intorno al cruscotto, infila un CD e spara musica messicana a volume da tirannosauro. Poi si toglie le scarpe di plasticone, abbassa lo schienale, tira giù il vetro e sporge fuori i piedi agitando l'alluce a ritmo di samba.
"Iride!"
"Abbasso il volume?"
"Iride!"
"Sì ho capito, vabbè, devo tirare dentro i piedi. Però che ci sarebbe di male?"
Chissà che regalo mi ha portato, pensa Gaspare. Intanto ai bordi dell'asfalto i primi lampioni alogeni inzuppano di giallo l'imbrunire. Plana una sera resinosa.
.
II
.
Avviene in una luce più parlata. Fioccano allegorie di triangoli.
Ai bordi dell'asfalto si sfilacciano luminescenze, le città diventano placide balene viola; è sera, l’aere si fa mansueta.
Gaspare, muso di lupo, tiene le mani dure sul volante. Capita che ti sorprenda un desiderio improvviso. Allegoria dell’ombra.
Iride intanto scocca sguardi mansueti verso le balene viola. Ha un viso volatile, come di pavoncella. Ma ha labbra concrete, fondanti.
Il muso di lupo di Gaspare è invece astratto, una sommatoria di inferenze. Se parla, le sue u sono puntute, affilatissime, dunque quasi invisibili. Con tutte quelle u con cui lui scheggia il suo discorso, la ragazza non è riuscita a seguirlo, a inseguirlo. La coda delle parole ogni tanto si perde. Si perde il mare del pensare, la fragile grammatica dell’acqua, coi suoi tremila occhi.
È sera, scorrono lente verità. Gaspare sta soffrendo, pare. Ha un suo tarlo, un melanoma dell’anima.
“Ah,” sonnecchia Iride.
.
III
.
Ma ora, mentre planano allegorie del mare, lo ascolta, o almeno vorrebbe.
"A Praga per esempio", continua Gaspare. "A Praga ho visto coi miei occhi e dunque devi credermi".
Se bastasse vedere per credere, pensa Iride. Io vengo proprio da là. Ho visto, non ho creduto.
Poi si volta di scatto verso Gaspare, sconquassando la penombra.
"Sai, carino? Te lo dico io cosa ho visto a Praga. A Praga ho visto un colore".
"Un colore?"
"Sì, un colore che chiamerei Verde Kafka: è un verde non verde, del verde conserva una lontana memoria, appare come un’incrostazione scura e sterrosa che ricopre l’intonaco di certi caseggiati in riva alla Moldava. Capisci, carino? Non è un verde, del verde non ha neppure l'apparenza, eppure... Eppure è lo stesso verde che trovi nelle pagine di Kafka, è quel colore incolore che ti viene incontro quando..."
"Che regalo mi hai portato?"
"Che regalo ho rubato per te, devi dire…".
"Vabbé. Cosa hai rubato a Praga?"
"Ma chi ha detto che l'ho rubato a Praga?"
"Dove allora?"
"A Monaco, carino. Prima di Praga sono stata a Monaco. Sai, là c'è un museo gigantesco, una cosa enorme. Scienza, tecnica… Deutsches Museum… roba così.
Mille sezioni. Le miniere antiche ricostruite nel sottosuolo. La gabbia di Faraday. Treni. Navi. Strumenti musicali d'ogni genere. Una sezione persino di giocattoli, tutti i giocattoli del mondo, di qualsiasi epoca e nazione, tutti in fila, trenini, bambole, passerotti di latta, soldatini, tutti nelle loro teche di vetro. Immobili. Fanno quasi paura."
"Hai rubato un giocattolo per me?"
"No, aspetta. Ci sono altre sezioni, in quel museo. È il Museo della Scienza e della Tecnica, uno dei più importanti del mondo, carino. Una sala è dedicata, sai a cosa? Al volo. Macchine volanti squadernate a volontà. Si parte dalle mongolfiere e non si finisce più. Era l’ora di chiusura e a un certo punto mi sono accorta che ero rimasta sola in mezzo a quei saloni cosi estesi che possono contenere, pensa, aerei e aerei a centinaia. …Che se ne stanno tutti là, in fila, tutti buoni buonini come uccelli imbalsamati. Ero rimasta solo io, non c'era più nessuno in quei saloni popolati di aerei fantasma. C'ero io e questa sterminata folla di congegni alati. E un silenzio arrapante. Ecco, ti ho portato questo".
Gaspare vede le dita di Iride che armeggiano dentro il buio di una borsetta. Dal buio sbuca un pacchetto bianco avvolto in un filo leggero.
"Bianco fuori e bianco dentro".
Gaspare scioglie il fiocco.
Le labbra di Iride restano socchiuse in attesa.
Il pacco contiene una tela ruvida, bianca ma offesa dal tempo e dalla polvere.
"Bianco Kafka?"
"È un pezzo d'ala, scemo. Un frammento. L'ho strappato al volo".
"Che ala?"
"Eh, questo non te lo dico! Appartiene a un'ala speciale. Prova a immaginare"
Planano lente verità, dentro l'abitacolo della Nissan.
Avviene in una luce più laccata. La macchina ora è immobile, in una piazzola di sosta, incartata in un'ombra lattescente.
Le labbra di Iride hanno il sapore delle arance brasiliane. Il suo minivestito è scomparso.
Il cielo, anche se forse è ancora notte, risplende di blu Klein.
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