Michela Apollonia, mia madre
di Nadia Cavalera
È nata a
Galatone (Lecce), in un vicolo di Armando Diaz (cuore del centro storico), il
28 agosto del 1921, da Filomena Cascarano e Giovanni Riccardi, che sulla stessa
strada, ad angolo col vicolo, gestivano una trattoria (con vendita di generi alimentari),
e alcune camere d’albergo, dislocate sopra.
Si chiamava Michela Apollonia Riccardi, terzultima di 10 figli (Pantaleo, Rocco, Antonio, Michele Biagio, Vincenzo, Egilda, Egilda Grazia, Michela Apollonia, Lucia, Annita).
È mia madre.
Si chiamava Michela Apollonia Riccardi, terzultima di 10 figli (Pantaleo, Rocco, Antonio, Michele Biagio, Vincenzo, Egilda, Egilda Grazia, Michela Apollonia, Lucia, Annita).
È mia madre.
Porta il
nome del fratellino Michele Biagio, morto, probabilmente di spagnola, a 5 anni
nel 1918, due giorni dopo di Egilda, di un anno appena.
Una
definizione breve? Bella, buona e santa. Un’ intera vita dedita alla famiglia.
Prima quella d’origine, dove aiutava per quanto poteva i genitori nella loro
attività di commercianti ristoratori, con un annesso piccolo albergo. Proprio
così, un albergo. Forse era più una locanda, ma il termine che correva in
famiglia era quello. Ricordo bene che lei lo ripeteva spesso, che andava a
riordinare le camere dell’albergo (quattro), e ricordo ancora meglio il suo
sconcerto quando una volta vide, sul letto già rassettato, tutti gli indumenti
piegati con ordine del loro avventore forestiero più strano. In una vecchia
agenda ho recuperato il suo nome: Leopoldo, ma forse scavando nella storia del
paese, si potrà arrivare anche al cognome e saperne di più. Sempre triste,
allampanato, di poche parole, quella mattina, prima di andarsi ad uccidere,
aveva voluto lasciare tutto in ordine. E in quest’ottica probabilmente
rientrava la sua morte, una messa a punto di un errore d’origine per lui. Lo
ripescarono a mare, con una corda e una pisara al collo. La cosa fu per
lei così sconvolgente che non volle andarci più nell’albergo, gli sembrava di
vederlo dappertutto. Fu accontentata, anche perché in una casa con tanti figli
e attività molteplici, di cose da fare non mancavano, e c’era per lei una
continua lotta per guadagnarsi e conservarsi uno spazio tutto per sé, tra le
prepotenze talora dei fratelli (non aveva mai dimenticato quel calcio
sferratole da dietro, nelle parti basse, senza motivo, da Antonino) e le
concorrenze delle sorelle (per vincere la golosità di Gilda si nascondeva il
cioccolato, dove poteva e una volta sotto il materasso lo trovò squagliato).
Ma i fratelli,
tutti provetti lavoratori in vari settori, se ne andarono ben presto, e in casa
rimasero solo le quattro femmine.
Finalmente
si poteva stare meglio. Anche se la casa rimaneva piccola. Consisteva in una
saletta d’ingresso (con un tavolo, una credenza un’angoliera e uno
scrittoietto), due camere da letto a destra (la prima dei genitori con porta
finestra sul vicolo, l’altra interna delle ragazze, con finestrella alta su un
cortile comune), e, in fondo a sinistra, l’accesso ad un cavedio (dove s’imponeva,
accanto ad una pila, un porta bacile con brocca), da cui si raggiungeva il
cesso prima, poi la cucina economica con camino, e anche, attraverso una breve
rampa di scale a destra, la stanza dei fratelli, ricavata da una colombaia.
Partito
l’ultimo di essi, Gilda e Michela si trasferirono subito nella stanza in alto.
Cetta e Annita rimasero giù. E la vita continuò per lei nella norma, con la
costante attenzione e curiosità verso tutto ciò che di bello la circondava,
soprattutto riviste di moda (circolanti per Gilda, bravissima sarta), storie
ammodo del paese, raccontate nelle prediche, e persino i panni stesi dalle
cameriere di vicini blasonati. Ne ammirava la cura e l’ordine nella
disposizione, che fece suoi per tutta la vita, sino a trasmetterceli. Guai a
stendere i panni alla rinfusa, ma tutto con una logica che avrebbe favorito
l’operazione di ritirarli e stirarli.
Anche negli
amori fu molto attenta e cauta (voleva evitare le tante storie deludenti di
ragazze, sedotte a abbandonate dai loro innamorati irresponsabili, come sarebbe
capitato poi ad una sua sorella). Accettò la corte solo di un giovane bello,
intelligente, e di carriera promettente, che sarebbe stato mio padre:
Sebastiano Cavalera.
Si fidanzarono che lei aveva 16 anni, ne condivise sogni e aspirazioni, poi lui partì in guerra, e si sposarono nel 1945, al suo ritorno. Abitarono in una traversa della principale Via XX settembre, su cui, ad angolo con la loro stradina, mio padre aprì il suo primo negozio di elettrotecnica. La casa piccolissima, a piano terra, aveva un ingresso-soggiorno, una camera da letto, la cucina, e un cesso, nel cortile dietro, pieno di ogni fiore (li amavano entrambi). Lì sono nata io, e prima ancora Adriana e Giovanni.
Si fidanzarono che lei aveva 16 anni, ne condivise sogni e aspirazioni, poi lui partì in guerra, e si sposarono nel 1945, al suo ritorno. Abitarono in una traversa della principale Via XX settembre, su cui, ad angolo con la loro stradina, mio padre aprì il suo primo negozio di elettrotecnica. La casa piccolissima, a piano terra, aveva un ingresso-soggiorno, una camera da letto, la cucina, e un cesso, nel cortile dietro, pieno di ogni fiore (li amavano entrambi). Lì sono nata io, e prima ancora Adriana e Giovanni.
La casetta,
dati i tempi, non era poi male, ma ben lontana da quella che aveva sognato mio
padre (che nel frattempo molto aveva studiato da autodidatta, seguendo le sue
tendenze artistiche e letterarie), e che avrebbe potuto tranquillamente
acquistare se solo avesse trovato, al suo rientro, i soldi che, grazie alle
paghe e qualche piccolo commercio, era riuscito a mandare a casa: 30 mila lire
(15 mila alla fidanzata e 15 mila alla madre).
La cifra esatta richiesta per l’acquisto di una villa, in contrada Cappuccini, sul lato destro, andando verso Gallipoli (dove forse è sorto poi un B&B o un ristorante). Ma dei soldi mandati non gli fu possibile rientrare in possesso della somma inviata alla madre (li aveva spesi per le sorelle) e il sogno saltò.
La cifra esatta richiesta per l’acquisto di una villa, in contrada Cappuccini, sul lato destro, andando verso Gallipoli (dove forse è sorto poi un B&B o un ristorante). Ma dei soldi mandati non gli fu possibile rientrare in possesso della somma inviata alla madre (li aveva spesi per le sorelle) e il sogno saltò.
Furono
felici lo stesso, e tanto più quando si trasferirono, nel 1952, in via
Cappuccini, al primo piano del numero 47, una casa ariosa, di quattro stanze,
più cucina, lavanderia con pila (accanto alla quale ben presto comparve una
piccola lavatrice che si caricava dall'alto), un ripostiglio, un bagnetto e un
balcone lungo quanto l’intera facciata (il primo del genere in paese). Per di
più un terrazzo a completa disposizione, dove mia madre poteva estrinsecare
tutto il suo estro per sventolare la biancheria al sole.
Qui, a
sottolineare la svolta, sarebbero nati poi altri due figli: Lorella e Giorgio.
E prima ancora l’abitudine di andare ogni domenica al cinema. Essendo io molto piccola, fino a 4 anni, mi portarono con loro, mentre i miei fratelli, dormivano, affidati alle cure di Graziella, la figlia della padrona di casa che abitava al piano terra. Questa frequentazione regolare fece scattare in me l’amore per la lingua italiana e l’associazione lingua/qualità di vita, che avrei focalizzato e sviluppato molto dopo.
E prima ancora l’abitudine di andare ogni domenica al cinema. Essendo io molto piccola, fino a 4 anni, mi portarono con loro, mentre i miei fratelli, dormivano, affidati alle cure di Graziella, la figlia della padrona di casa che abitava al piano terra. Questa frequentazione regolare fece scattare in me l’amore per la lingua italiana e l’associazione lingua/qualità di vita, che avrei focalizzato e sviluppato molto dopo.
Furono anni
bellissimi e di pieno benessere, tant’è che io personalmente avevo maturato
l’idea di essere la più ricca del paese. Da qui il litigio con una mia compagna
di scuola, che in una discussione sul tema (eravamo in quarta elementare,
credo), mi aveva contestato il primato. L’ho odiata e subito a casa ho riferito
l’episodio a mia madre, sperando in una smentita. Invece lei tranquillamente lo
confermò: “Certo, Nadia, ha ragione Loreta, i C. sono molto ricchi, e hanno
tante proprietà. E ci sono tanti altri ricchi in paese. Noi qui siamo in
affitto”.
Scoprii
allora, tra l’epifania di una ridda di paperoni locali, che per essere felici
non ci vogliono beni catastali, ma affettivi e morali. Quelli che a tutti
dovrebbero essere garantiti per una vita decorosa che valga la pena vivere.
Continuai ad
amare la mia vita e a rappresentarla ai miei amici nella maniera più fantasiosa
e teatrale possibile, secondo i tanti film di cui mi ero nutrita da piccola, al
cinema (sulle ginocchia di mia madre), e poi a casa, alla televisione (di cui
abbiamo usufruito per primi poiché mio padre, nel frattempo, insieme ad
un’industria di trasformatori di tensione, aveva messo su un negozio di
elettrodomestici sempre su via XX Settembre – con l’esclusiva ambita della
Philips).
Quante menzogne in quell’ultimo anno di scuole elementari, come se volessi rivalermi del mio doppio smacco, non solo in famiglia (non ero più la piccolina viziata), ma anche nel sociale, per il mio ridimensionamento economico! Se gli altri avevamo un albero di limone, io un’estensione intera, se gli altri vantavano un cavallo, io un’intera scuderia. E come se non bastasse, li sfidavo a venire a controllare. E sudavo freddo, ricordo ancora, nel dirlo, temendo che accettassero. Ma ciò che non riesco a dimenticare sono soprattutto i dialoghi ampollosi, ingessati, da piccola lady, che riportavo alla mia compagna di classe Lucia, e da cui pretendevo fiducia cieca. I saluti in famiglia, secondo i miei racconti, si svolgevano così: “Buon giorno figlia” “Buon giorno padre” o “Buon giorno madre”. E così di seguito in un crescendo di invenzioni che diventò insostenibile emotivamente. Non sapevo come uscirne, mi sentivo soffocare sicché mi promisi solennemente che, cambiando scuola, dalla prima media, non avrei mai più detto una menzogna. Per nessuna ragione al mondo. Libera e leggera. Finalmente. E così è poi stato. Tutto all’insegna dell’assoluta trasparenza.
Quante menzogne in quell’ultimo anno di scuole elementari, come se volessi rivalermi del mio doppio smacco, non solo in famiglia (non ero più la piccolina viziata), ma anche nel sociale, per il mio ridimensionamento economico! Se gli altri avevamo un albero di limone, io un’estensione intera, se gli altri vantavano un cavallo, io un’intera scuderia. E come se non bastasse, li sfidavo a venire a controllare. E sudavo freddo, ricordo ancora, nel dirlo, temendo che accettassero. Ma ciò che non riesco a dimenticare sono soprattutto i dialoghi ampollosi, ingessati, da piccola lady, che riportavo alla mia compagna di classe Lucia, e da cui pretendevo fiducia cieca. I saluti in famiglia, secondo i miei racconti, si svolgevano così: “Buon giorno figlia” “Buon giorno padre” o “Buon giorno madre”. E così di seguito in un crescendo di invenzioni che diventò insostenibile emotivamente. Non sapevo come uscirne, mi sentivo soffocare sicché mi promisi solennemente che, cambiando scuola, dalla prima media, non avrei mai più detto una menzogna. Per nessuna ragione al mondo. Libera e leggera. Finalmente. E così è poi stato. Tutto all’insegna dell’assoluta trasparenza.
Quegli anni
comunque d’oro passarono, quando nel maggio del 1963 (io ero in terza media)
mio padre ebbe un incidente stradale al ritorno da Bari, nei pressi di Mesagne,
e dopo un intervento alla milza, per bloccare l’emorragia, morì. A ottobre
avrebbe compiuto 46 anni. Mia madre in quei giorni gli è stata sempre vicina.
Ci sono andata anch’io, insieme ai fratelli grandi, in ospedale subito, con le
zie paterne, e non dimenticherò mai le contorsioni e le urla di dolore di mia
zia Anita, nel vedere il luogo dell’incidente (ci dovevamo passare per forza),
la macchina bianca (una mille e cento familiare), accartocciata intorno ad un
ulivo. Un incidente che credo mio padre abbia subito, sembrava che fosse stato
mandato fuori strada, da un sorpasso azzardato di altri. Infatti nei rari
momenti di lucidità chiedeva: “E l’altro, l’altro che si è fatto? L’avete
visto? Che dice?”.
E in effetti
esisteva un altro, un certo barbiere di Lecce che fu rintracciato, ma che
nessuno allora è riuscito ad inchiodare alle sue responsabilità. Mia madre era
sempre vissuta in casa, aiutata, per i lavori più faticosi, da una signora
deliziosa, Giorgina, vestita di un camicione lungo, nero, stretto in vita da un
grembiule pure nero, le chiome grigiastre crespe intorno al volto e le gote
sempre rubizze (prima di andare via da noi pranzava regolarmente, col suo
bicchiere di vino garantito). La mamma, con cinque figli da accudire, non
usciva mai, né faceva la spesa (ci pensava mio padre) e non aveva alcuna
dimestichezza con certe cose del mondo. Fu infatti un amico di mio padre a
consigliarle e gestire il fallimento, la sottrazione della merce da vendere
alla spicciolata per un qualche sostentamento ai figli, le pratiche per la
pensione di reversibilità, quale vedova di un maresciallo di marina in pensione
anticipata, per motivi di salute (papà in guerra si era preso la tubercolosi,
curata perfettamente in Germania, durante la prigionia), la richiesta di
sussidi ai vari enti preposti.
Dopo la
morte di papà, per noi tutti una vita molto misurata, ma vissuta con allegria.
Che risate, una volta, davanti ad una scatoletta di tonno (più piccola della
polenta di manzoniana memoria), da dividere in cinque. O quando tutti insieme
stabilivamo il compenso che mio fratello Giovanni doveva chiedere ad un cliente
per le riparazioni di radio o televisioni, in cui, per inclinazione paterna,
lui eccelleva. Andavamo al rialzo della cifra, che alla fine risultava comunque
inferiore a quella dei radiotecnici ufficiali. Il tutto senza amarezza, sempre
ridendo e scherzando, quasi un gioco transitorio. Come in effetti è stato.
Grazie a mia
madre, che ha sempre saputo tenerci uniti, sostenerci al meglio. Almeno per gli
altri. Io in effetti avevo più fame di lei (soffrii in seguito di anoressia),
ne ero gelosa. Dacché mi aveva dato un’altra sorellina, nel 1958, che mi aveva
spodestato dal mio ruolo di principessina, senza prepararmi adeguatamente
(quando nacque Giorgio, ero già avvezza). Ne ebbi piena coscienza, quando, a 8
anni, mi ritrovai sola davanti ad un tazzone di latte, abbandonata a me stessa,
senza alcun cerimoniale di contorno, come i biscotti pronti, le coccole, le
chiacchiere, l’invito a mangiare (mia madre in camera aveva appena partorito
Lorella ed era assistita da parenti).
Dopo fui gelosa persino del rapporto privilegiato che aveva instaurato coi nipotini, i figli di Giorgio (l’unico rimasto in paese), e cresciuti praticamente da lei. Non capivo come mai, quand’io andavo a trovarla, potesse trascurarci a loro favore. E solo oggi, che sono anch’io nonna, di nipoti vicini, l’ho assolta.
Michela Apollonia, per tutti Mimina, riuscì a reggere come una roccia, anche quando il destino, dopo appena 9 anni dalla perdita del marito, la privò della figlia a lei più cara, la primogenita Adriana. Strinse i denti, e andò avanti, ma spesso, alla macchina da cucire, mentre realizzava i suoi piccoli capolavori, di cui era orgogliosissima, non ce la faceva a trattenere il groppo dei ricordi e piangeva, silenziosamente, senza però arrestarsi un attimo.
Dunque bella (le foto sono eloquenti), buona (non ci ha mai picchiato, solo tanto rimproverato, né ha mai fatto un torto, ma molti ne ha subiti) e santa. Come chiamarla altrimenti? Vedova a 42 anni, è rimasta sempre tale e monogama totale, rifiutando i vari matrimoni proposti dalle comari che si facevano da intermediarie e qualsiasi altro intrallazzo. Mai lei si sarebbe messo un altro uomo in casa, con i figli che aveva da crescere. Nessun grillo per la testa, mai chiacchierata, tutta casa e famiglia, nessuno spazio neppure per la chiesa (“che Dio avrebbe potuto essere più clemente con lei”).
Unico passatempo, negli anni, la passione dell’antiquariato, ereditata da Adriana, e forse soprattutto un modo per riviverla. Così che, quando le capitava, acquistava oggettistica, o mobili autentici salentini, scoperti in abbandono presso parenti, conoscenti, o i contadini che, a caccia di genuinità, frequentava, per procurarsi direttamente farina, olio, frutta, ortaggi. E ne faceva poi dono a noi, ormai sposati e lontani. A lei devo molti miei mobili, l’enorme armadio quasi da sagrestia, il bellissimo letto in ferro con i medaglioni mai più dipinti, il comò in camera, la vetrinetta in salotto, lo scolapiatti in legno... e anche il sontuoso tavolo ottocentesco su cui ora sto scrivendo al computer.
Per rinnovare il ricordo del mio riconoscente amore, ed anche dei miei fratelli, per una donna esemplare, di vecchi sani principi. Una donna rara.
Morì, con tutti i suoi figli intorno (io le stringevo la mano) il 20 ottobre del 2001; da pochi mesi, aveva compiuto 80 anni.
A presto, mamma.
Dopo fui gelosa persino del rapporto privilegiato che aveva instaurato coi nipotini, i figli di Giorgio (l’unico rimasto in paese), e cresciuti praticamente da lei. Non capivo come mai, quand’io andavo a trovarla, potesse trascurarci a loro favore. E solo oggi, che sono anch’io nonna, di nipoti vicini, l’ho assolta.
Michela Apollonia, per tutti Mimina, riuscì a reggere come una roccia, anche quando il destino, dopo appena 9 anni dalla perdita del marito, la privò della figlia a lei più cara, la primogenita Adriana. Strinse i denti, e andò avanti, ma spesso, alla macchina da cucire, mentre realizzava i suoi piccoli capolavori, di cui era orgogliosissima, non ce la faceva a trattenere il groppo dei ricordi e piangeva, silenziosamente, senza però arrestarsi un attimo.
Dunque bella (le foto sono eloquenti), buona (non ci ha mai picchiato, solo tanto rimproverato, né ha mai fatto un torto, ma molti ne ha subiti) e santa. Come chiamarla altrimenti? Vedova a 42 anni, è rimasta sempre tale e monogama totale, rifiutando i vari matrimoni proposti dalle comari che si facevano da intermediarie e qualsiasi altro intrallazzo. Mai lei si sarebbe messo un altro uomo in casa, con i figli che aveva da crescere. Nessun grillo per la testa, mai chiacchierata, tutta casa e famiglia, nessuno spazio neppure per la chiesa (“che Dio avrebbe potuto essere più clemente con lei”).
Unico passatempo, negli anni, la passione dell’antiquariato, ereditata da Adriana, e forse soprattutto un modo per riviverla. Così che, quando le capitava, acquistava oggettistica, o mobili autentici salentini, scoperti in abbandono presso parenti, conoscenti, o i contadini che, a caccia di genuinità, frequentava, per procurarsi direttamente farina, olio, frutta, ortaggi. E ne faceva poi dono a noi, ormai sposati e lontani. A lei devo molti miei mobili, l’enorme armadio quasi da sagrestia, il bellissimo letto in ferro con i medaglioni mai più dipinti, il comò in camera, la vetrinetta in salotto, lo scolapiatti in legno... e anche il sontuoso tavolo ottocentesco su cui ora sto scrivendo al computer.
Per rinnovare il ricordo del mio riconoscente amore, ed anche dei miei fratelli, per una donna esemplare, di vecchi sani principi. Una donna rara.
Morì, con tutti i suoi figli intorno (io le stringevo la mano) il 20 ottobre del 2001; da pochi mesi, aveva compiuto 80 anni.
A presto, mamma.
Sorelle Riccardi, Anni Quaranta |
Famiglia Riccardi (senza i 4 maschi) |
Famiglia Riccardi (senza i 4 maschi) |
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