LA QUESTIONE MORALE E’ UNA QUESTIONE COGNITIVA
di Angela Giuffrida
Il dialogo tra Paolo Flores d'Arcais e Roberta De Monticelli Controversia sull'etica, apparso sul n. 5/2011 di Micromega, mostra l'impossibilità per le società androcentriche di evolversi razionalmente. Sostenere, infatti, come fa Flores d'Arcais, che la morale non può avere fondamento razionale significa affermare che non c'è ragione per costruire comunità civili, basate sul riconoscimento e il rispetto del vivente umano (e non umano).
Di sicuro la morale non può avere fondamento razionale in un mondo astratto – di pura fantasia - dove essere rispettati o perseguitati, essere liberi o schiavi, vivere o morire sono la stessa cosa dato che il riferimento è un essere immateriale, l'inesistente soggetto del pensiero filosofico. Se, viceversa, l'organismo vivente umano irrompe nel mondo del pensiero, con le sue cogenti necessità e le sue tante possibilità, la morale assume un valore altamente razionale in quanto funzionale alla sua sopravvivenza e alla sua evoluzione. E' così vero che il vivente l'ha iscritta nell'istinto. Se la nostra specie fa eccezione bisogna chiedersi perché, rappresentando la sua disattivazione un serio pericolo.
Certo se andiamo in cerca di una morale naturale come “realtà oggettiva, vera, cogente” alla stregua di “cromosomi morali nel cosmo o comunque nel cuore di Homo sapiens”, se , soprattutto, pensiamo di rintracciarne esempi costanti nelle società androcentriche dove “il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli e dei padri, tutto ha trovato il proprio posto tra le azioni virtuose”, come Pascal constatava, difficilmente troveremo una soluzione al problema posto. Se poi ci intestardiamo a ricercare in società siffatte addirittura l’origine razionale dei valori, ci incamminiamo su una strada senza uscita, proprio come Flores d’Arcais. Per nulla impensierito dalla capacità degli animali di distinguere “tra comportamenti-sì e comportamenti-no”, a differenza degli uomini - gli animali razionali per eccellenza -, e dall’infondatezza dei valori che nelle società patrifocali vivono di vita propria, senza un perché, afferma che indifferentemente
“possiamo scegliere il primato del tu, cioè l’identità di ciascuno in quanto è un ‘tu’ per tutti gli altri, in eguale e reciproca dignità, ma possiamo viceversa scegliere di considerare gli altri ‘materia a disposizione’ per l’affermazione della nostra supremazia individuale o di gruppo. La scelta fra queste due possibilità non può essere razionale, è una decisione (benché spesso inconsapevole) in senso puro”.
La tesi della “irriflessività” delle scelte morali ha sbocchi piuttosto bizzarri perché sostenere che decisioni così importanti sono “pure” equivale a dire che scaturiscono dal nulla e che, perciò, vengono prese a casaccio. Per la verità “puro” e “assoluto” sono termini filosofici che non trovano corrispondenza nell’esperienza reale di ogni essere umano, il quale, come tutti i viventi, deve la sua esistenza ad una intricata rete di legami inscindibili con la sua e le altre specie. Purtroppo il sistema di pensiero maschile, che nell’assurda pretesa di essere unico e solo domina incontrastato da alcuni millenni, non prevede i nessi, basato com’è sull'assunzione di dati singoli scorporati dal contesto e fra loro opposti. La rappresentazione del mondo che ne deriva è atomizzata e conflittuale. Questo è il motivo per cui ragione e morale, assolutizzate ed entizzate perché prive di riferimento al corpo che le produce, diventano atomi irrelati, come d’altronde lo stesso individuo che, nell’errata percezione di un isolamento inesistente, ritiene di poter ricavare unicamente da sé forza e potenza.
La pretesa autonomia delle scelte morali – come d’altronde di qualsiasi altra scelta – deriva dalla parzialità dello sguardo maschile sul mondo. Il non-cognitivismo etico è centrato, infatti, unicamente sull’individuo che opera la scelta, mentre vengono totalmente oscurati tutti coloro che ne subiscono le conseguenze. Da questa angolazione visuale rispettare gli altri o usarli come mezzi è indifferente in quanto affare privato del singolo; d’altra parte la verifica della bontà o meno di ciascuna decisione è resa impossibile dalla cancellazione degli effetti “reali” sugli altri, ma anche su di sé dato che “la logica del prevaricatore se oggi la usate voi domani può ritorcersi contro di voi”.
Secondo me l’unico criterio di verità a nostra disposizione è il confronto con la realtà, la quale nella mente maschile sfuma pericolosamente a causa dell’estrema parcellizzazione che la rende intangibile. Diviso in mille parti antagoniste, lo stesso soggetto conoscente smarrisce la sua integrità di organismo per diventare un occhio che vede il mondo come uno schermo pieno di oggetti da manipolare a piacimento. L’assenza di sapere di sé rende possibile la trasformazione in “oggetti” anche dei viventi umani, considerati “materia a disposizione” per affermare la supremazia. Il pensiero filosofico registra tale defaillance ignorando l’organismo vivente che viene sostituito da un improbabile essere “purificato” dai legami corporei. E’ così che l’inesistente uomo neutro universale, soggetto della politica, rende inefficace qualsiasi tentativo volto alla realizzazione di società civili. Se, infatti, non esistiamo nella mente come organismi singoli e concreti, possiamo pretendere di essere riconosciuti e di vedere praticamente soddisfatte le nostre esigenze? Assicurare diritti ai fantasmi è impossibile per il semplice motivo che i fantasmi non hanno diritti da far valere.
Il valore primo da difendere è che condividiamo tutte e tutti la stessa condizione in quanto viventi. L’uguaglianza nella dignità deriva dal riconoscimento dell’integrità-unicità-autonomia dell’organismo vivente e dall’attribuzione del giusto valore alla vita che, lo sappiamo, nelle società androcratiche non ne ha alcuno. Se il soggetto del pensiero è l’organismo con le sue necessità e le sue possibilità, la morale e la ragione non appaiono estranee e addirittura antinomiche. Il fine di ogni vivente è vivere, perciò non è difficile capire che comunità basate sul riconoscimento e il rispetto sono in grado di garantire meglio la vita ai propri membri e di contribuire a mantenere la specie sul pianeta il più a lungo possibile. E’ invece sotto i nostri occhi l’universale debacle delle comunità organizzate da individui il cui unico scopo è inseguire un potere che non hanno. I furbi, ai quali nelle società patricentriche viene attribuita un’intelligenza acuta e penetrante, stanno mettendo in serio pericolo la sopravvivenza della specie di cui pure fanno parte e la vita stessa sul pianeta che li ospita, a causa dell’angustia della loro mente.
La morale è la più alta forma di assicurazione sulla vita, quindi non può non essere razionale. La vera razionalità è funzionale alla vita. A generarla è una dimensione affettiva evoluta, la sola in grado di rendere razionali idee ed azioni. E’ corretto affermare, come fa Roberta De Monticelli, che non si può “contrapporre la ragione alle emozioni, al sentimento, alla passione”. Pensiamo proprio perché siamo viventi e senzienti. La natura, la corporeità, l’affettività opposte dagli uomini alla ragione sono, invece, ciò che la rende possibile. E’ giusto anche introdurre nella nozione di ragione l’esperienza. La mente, infatti, è un processo del corpo biologico che trasforma l’esperienza in pensiero. L’empatia e il rispetto sono faticose conquiste mentali dovute soprattutto alle esperienze di riproduzione e di cura della vita, preziose perché assicurano la conoscenza di sé e dell’altro. Conferme a tal proposito arrivano da ricerche condotte in tutto il mondo da autorevoli scienziati che situano le attività di cura alla base dell’evoluzione cerebrale. Purtroppo tutte le società androcentriche, senza eccezioni, sono basate sullo sfruttamento del lavoro di cura. La sua collocazione in un mondo a parte - privato, inferiore e di pertinenza esclusivamente femminile - ha precluso agli uomini quelle esperienze affettivo-cognitive adatte a sviluppare una mente aperta e contenitiva, in grado di cogliere la ricchezza e la complessità del reale.
La questione morale è, dunque, una questione eminentemente cognitiva, è l’estrinsecazione di categorie mentali parziali e riduttive. La diffusione capillare del binomio irrazionalità-disumanizzazione nelle comunità in cui viviamo, ne costituisce la prova provata. Flores d’Arcais ha ragione quando afferma che è impossibile convincere chi non crede nella bontà dei valori di uguaglianza e giustizia, perché i ragionamenti non bastano a chi non ha sviluppato una conveniente apertura mentale. D’altronde, come può egli persuadere chicchessia se, per primo, non vede l’intima razionalità di tali valori e sostiene che “tra chi afferma l’eguale dignità di tutti e chi la nega…è possibile solo la guerra”? I valori non scaturiscono, io credo, da una imposizione violenta e dall’alto, ma dal sostegno all’evoluzione razionale delle menti.
5 ottobre 2011
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